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MAH, n.21, settembre 2010, pp.3-4

LIBRI

Richard Dawkins, Il più grande spettacolo della Terra : perché Darwin aveva ragione, Milano : A. Mondadori, 2010.
L’autore nota che le prove a favore della teoria dell’evoluzione diventano sempre più solide, ma continuano ad incontrare una forte opposizione. Lo scopo del libro è appunto quello di mostrare come l’evoluzione sia un fatto scientificamente appurato e come le obiezioni di chi lo nega siano prive di fondamento.
Una frase in voga tra i “nemici” della teoria dell’evoluzione è che essa sarebbe, appunto, “solo una teoria”. E’ un’obiezione che dimostra la scarsa conoscenza del linguaggio scientifico da parte di chi la formula. Lo fa notare anche Dawkins che, riprendendo le definizioni dell’Oxford English Dictionary, nota che nel linguaggio comune si parla di “teoria” per indicare anche una “mera supposizione” o una “opinione o modo di pensare individuale”, ma che in termini scientifici una teoria è una “ipotesi che è stata confermata o stabilita dall’osservazione o dagli esperimenti”. Teorie come quella dell’evoluzione o quella eliocentrica “sono al di là di ogni ragionevole dubbio, e queste teorie noi le chiamiamo fatti” (pp.12-13).
L’evoluzione è stata osservata anche in laboratorio. Dawkins ricorda l’esperimento di Lenski e dei suoi collaboratori sui batteri Escherichia coli. Il lavoro è stato portato avanti per venti anni e, dato che questi batteri hanno sei o sette generazioni al giorno, sono state osservate quarantacinquemila generazioni (pp.101-114). La selezione naturale è stata colta all’opera anche su vertebrati. Nel 1971 un gruppo di lucertole campestri Podarcis sicula dell’isolotto di Pod Kopiste, sulla costa croata, fu portato su un altro isolotto, Pod Mrcaru, dove quei rettili non erano presenti. Nel 2008 Anthony Herrel e la sua squadra scoprirono che le lucertole di Pod Mrcaru si erano adattate a dieta una più erbivora che a base di insetti (mentre quelle di Pod Kopiste si cibavano quasi esclusivamente di insetti) e avevano sviluppato una testa più grossa, adatta a questo diverso regime alimentare (pp.97-100). Un altro esperimento, guidato da John Endler, riguardava la Poecilia reticulata, un pesce noto anche con il nome comune di guppy. Una colorazione più vistosa fa sì che i maschi di questa specie siano maggiormente notati dalle femmine e rappresenta quindi un vantaggio, ma, nello stesso tempo, li rende più visibili anche ai predatori. Esperimenti svolti sia in laboratorio che in natura hanno mostrato che in presenza di predatori efficaci, la colorazione dei maschi diventa più mimetica, mentre mancando quelli si fa più vistosa. Endler notò cambiamenti in natura nel giro di soli 23 mesi. Nove anni dopo, un altro studioso, David Reznick, andò a visitare i luoghi dell’esperimento di Endler e trovò un’ulteriore conferma (pp.116-121).
Anche quelli che possono sembrare difetti degli organismi, come la disposizione apparentemente assurda del nervo laringeo nei mammiferi (un esempio evidente, data la lunghezza del collo, è la giraffa), possono essere spiegati con la storia evolutiva (pp.301-316), che rende conto anche delle convergenze evolutive che portano animali di gruppi diversi ad avere un aspetto assai simile, come nel caso dell’onisco Armadillidium vulgare e del millepiedi Glomeris marginata oppure del lupo e del tilacino (pp.252-253).
Nel settimo capitolo, Dawkins mostra come, al contrario di quanto sostengono alcuni avversari della teoria dell’evoluzione, i resti fossili trovati documentano bene l’evoluzione verso l’Homo sapiens. L’autore dedica qualche riga anche al creazionista turco Harun Yahya che, nel suo Atlante della creazione, vorrebbe negare l’evoluzione mostrando una presunta uguaglianza tra fossili e forme ancora viventi, ma in qualche caso mette a confronto, in realtà, animali ben diversi: scambia un serpente acquatico per un’anguilla, confonde un sabellide con un crinoide e presenta, “svarione più divertente di tutti, un’esca artificiale denominandola «friganea»” (p.132).

Maya Beauvallet, Le strategie assurde : come fare peggio credendo di fare meglio, Milano : Garzanti, 2010.
L’autrice fa notare come sia pericoloso affidarsi agli “indicatori di performance” per valutare la qualità del lavoro svolto dalle persone. Se, per esempio, un impiegato fosse giudicato in base al numero di pratiche svolte, sarebbe portato a svolgerle più velocemente, anche quando sarebbe meglio dedicare loro più tempo. Se si decide di misurare un certo aspetto del lavoro, ci si può attendere che è su quello che si concentrerà l’attenzione perché per il lavoratore “è più vantaggioso far crescere l’indice, ricevere la ricompensa in denaro e trascurare i compiti non misurabili, che non «fruttano» niente” (p.80). Il rischio è, insomma, che il lavoratore sia portato a lavorare per gli indici e non per ciò che gli indici dovrebbero misurare. Anche nel caso di una persona che abbia a cuore la qualità complessiva del lavoro che svolge è comprensibile, e del tutto legittimo, che voglia comunque assicurarsi di raggiungere gli indici richiesti in modo da non essere, paradossalmente, penalizzato nella valutazione e nella retribuzione. Quindi, suggerisce l’autrice, “può essere saggio non incoraggiare i dipendenti a migliorare l’indice della mansione più facilmente misurabile, perché ciò avviene a detrimento del lavoro in cui la qualità è più importante” (p.84). Come osserva Beauvallet, “raggiungere l’obiettivo è una cosa, fare un lavoro di qualità è un’altra” (p.64).