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MAH, n.27, marzo 2012, pp.3-4

LIBRI

Scott O. Lilienfeld, Steven Jay Lynn, John Ruscio, Barry L. Beyerstein, I grandi miti della psicologia popolare : contro i luoghi comuni, Milano : Cortina, 2011.
Gli autori hanno scritto questo libro per “sfatare convinzioni diffuse ma errate” (p.XV) nel campo della psicologia, dalla leggenda metropolitana che sostiene che le persone (o la maggior parte di esse) usano solo il 10% del cervello a quella che afferma che far ascoltare Mozart ai bambini porta a una crescita della loro intelligenza, dall’ipnopedia (secondo la quale si potrebbe imparare una lingua straniera o altro facendo andare cassette o cd mentre si dorme) alle esperienze extracorporee, dall’efficacia dei messaggi subliminali al significato simbolico dei sogni e all’interpretazione delle macchie del test di Rorschach.
Questi miti della “psicologia popolare” vengono ridimensionati o del tutto demoliti in base alle prove concrete raccolte negli studi di psicologia. La bibliografia è davvero ampia e occupa, in questa edizione italiana, ben cinquanta pagine. La meticolosità nel riferimento alle fonti si accompagna a un linguaggio molto chiaro che rende il libro del tutto accessibile anche ai non addetti ai lavori.
Da segnalare anche l’ottima introduzione metodologica nella quale, tra l’altro, gli autori individuano le principali cause della diffusione di idee erronee: il passaparola senza adeguato controllo, il desiderio di avere risposte semplici e soluzioni rapide, la selettività delle percezione e della memoria (si notano e si ricordano gli eventi che assecondano una convinzione e non quelli che non sono in linea con essa, creando così una correlazione illusoria), l’inferire un rapporto causale a partire da una correlazione (due fenomeni potrebbero mostrare andamenti tra loro correlati, ma ciò non significa che uno sia la causa dell’altro: potrebbero, per esempio, essere entrambi conseguenze di una medesima causa), il ragionamento “Post hoc, ergo propter hoc” (“dopo di questo, dunque a causa di questo”), l’esposizione a un campione distorto, il ragionamento per rappresentatività (si scambiano le somiglianze per correlazioni: per esempio, il grafologo che interpreta gli spazi tra le lettere come indicazioni di necessità di spazi personali), le descrizioni fuorvianti diffuse dai media e dai film (il libro è ricco di riferimenti cinematografici), l’esagerazione di un nocciolo di verità, la confusione terminologica (p.e. il termine “schizofrenia” usato spesso per indicare il disturbo da personalità multipla, la cui esistenza è comunque discussa).

Cinzia Rando, I 100 luoghi del mistero, Assago : Touring, 2011.
Gli argomenti trattati in questo libro per ragazzi, grazie al fascino del mistero e anche alle numerose immagini, potevano essere un’occasione per avvicinare i giovani lettori alla scienza, mostrando come valutare le affermazioni su questi temi con spirito critico e metodo scientifico. Purtroppo i testi riportano, invece, in modo acritico affermazioni prive di fondamento. Si legge che nelle piramidi “gli oggetti perdono peso e si smarrisce la cognizione del tempo” e che “qualcuno sostiene che si possa entrare persino in contatto con altre dimensioni” (p.16). A proposito delle incisioni rupestri della Valcamonica si indicano “strane figure con la testa coperta da caschi dotati di antenne” e viene esposta l’idea che possa trattarsi di astronauti alieni (p.25). Nelle pagine sulle linee di Nazca viene riferito che per Erich von Däniken creature aliene “modificando il DNA della scimmie [sic], diedero origine alla specie umana” (p.32). Parlando del sito di Arkaim si dice che “grazie a un misterioso campo magnetico, tronchi e cortecce si contorcono e le rocce emanano energie positive” e che vi sarebbero “incomprensibili proprietà magnetiche, potenti flussi di energia positiva” (p.41). Della bestia di Cuero si dice che era “incredibilmente somigliante a un chupacabra” (e chi stabilisce quale delle diverse descrizioni della leggendaria creatura fa testo per valutare la somiglianza?) e, forse influenzata dalle affermazioni della trasmissione televisiva “Voyager”, l’autrice scrive che “l’esame del DNA ha rilevato che la bestia presenta somiglianze genetiche con il coyote ma non è identico” (p.121). Come già si notava in un articolo della nostra rivista (“Mah”, n.10, dicembre 2007), l’affermazione è priva di senso: gli esemplari di una stessa specie (che siano coyote o qualunque altro animale, umani compresi) non hanno tutti un dna identico tra loro. Il fatto che il dna sia risultato “quasi identico” non significa che si tratta di una specie diversa rispetto al coyote, ma che si tratta di un esemplare diverso rispetto agli esemplari il cui dna è inserito nella banca dati (che, ovviamente, sono pure loro “quasi identici”, e non “identici”, tra loro).

Giuliana Mazzoni, Psicologia della testimonianza, Roma : Carocci, 2011.
Una testimonianza non dà la certezza che i fatti si siano svolti come viene raccontato. Non si tratta solo della possibilità che il testimone dica volontariamente il falso (pp.35-41). Anche una persona in buona fede e in pieno possesso delle capacità intellettive e cognitive potrebbe commettere errori.
La memoria umana non è una semplice registrazione oggettiva dei fatti cui si è assistito. “Ricordare”, scrive l’autrice, “è un processo prevalentemente ricostruttivo, e non riproduttivo” (p.75; si vedano le pp.75-78). Se “in linea di massima possiamo fidarci del ricordo”, è anche vero che la memoria “può essere modificata e le persone possono ricordare cose che non corrispondono alla realtà, e i falsi ricordi sono esperienze relativamente comuni” (p.79).
Le stesse procedure usate per raccogliere la testimonianza potrebbero alterare i ricordi della persona che la rilascia. L’autrice sottolinea la “facilità con cui un individuo adotta e inserisce nel proprio ricordo contenuti non veri che erano invece parte delle domande ricevute” (p.81). A maggior ragione può portare facilmente alla creazione di false memorie il tentativo di “recuperare” i ricordi attraverso l’ipnosi (p.85).
Anche il mug shot, la procedura, resa celebre dai film polizieschi, di mostrare una lunga serie di foto per vedere se il testimone riconosce in uno di essi il colpevole, porta qualche problema perché l’esame di un gran numero di volti “danneggia fortemente la rappresentazione in memoria del colpevole” (p.64). Un’altra tecnica di riconoscimento è quella, anch’essa spesso mostrata nei film, in cui alcuni individui, tra i quali l’indiziato, sono fatti disporre in una fila e si chiede al testimone se riconosce tra di loro la persona che ha commesso il reato. Mazzoni nota che, per evitare errate identificazioni, sarebbe opportuno avvertire che il colpevole potrebbe non essere tra le persone allineate. Gli studi mostrano che persino con tale avvertimento “la tendenza a indicare in ogni caso una delle persone del lineup è forte” (p.61).
Si potrebbe credere che quanto più un testimone è convinto di ciò che afferma, tanto più i suoi ricordi saranno corretti. In realtà gli studi fatti su ciò mostrano che “la relazione tra sicurezza e accuratezza è estremamente bassa” (p.96).
Nell’ultima parte del libro (pp.109-130), l’autrice dà indicazioni su come dovrebbe essere condotta (e su come non dovrebbe essere condotta) un’intervista a un testimone.