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MAH, n.29, settembre 2012, pp.2-4

LIBRI

Stefano Ossicini, L’universo è fatto di storie e non solo di atomi : breve storia delle truffe scientifiche, Vicenza : Neri Pozza, 2012.
Nel 1903 René Blondlot scoprì i raggi N. O, meglio, si illuse di averli scoperti. Molti altri caddero nella sua illusione e sembrò loro di poter confermare i risultati dello scienziato francese. Chi non si fece trarre in inganno fu Robert Wood. Andò nel laboratorio di Blondlot e mise a frutto il suo acume di scienziato e anche la sua abilità da prestigiatore. Senza che lo studioso francese e il suo assistente se ne accorgessero, Wood riuscì a cambiare o rimuovere oggetti, senza che i risultati delle prove ne fossero influenzati come avrebbe dovuto accadere se si fosse trattato di realtà fisiche anziché di illusioni dello sperimentatore.
Non è l’unico caso in cui presunte scoperte scientifiche si rivelarono illusioni, se non addirittura truffe. Ossicini racconta diversi casi, alcuni ben noti, come gli esperimenti sulla “memoria dell’acqua” dell’équipe di Jacques Benveniste e la loro smentita da parte del trio di controllo inviato dalla rivista “Nature” (il fisico John Maddox, redattore capo della rivista, il biochimico Walter Stewart e il prestigiatore James Randi). Altro caso ben noto è quello dei diversi annunci sulla realizzazione della fusione fredda, nessuno dei quali è riuscito però a portare prove solide, tali da convincere la comunità scientifica.
Altri episodi sono meno conosciuti, almeno tra i non addetti ai lavori. L’autore ricorda i casi, tutti etichettati come frodi dalle inchieste svolte su di essi, delle reazioni enanzioselettive annunciate da Guido Zadel, della presunta scoperta di nuovi elementi da parte di Victor Ninov, degli articoli sulla sonofusione di Rusi Taleyarkhan, delle numerose pubblicazioni di Jan Hendrik Schön.

Fabrizio Benedetti, L’effetto placebo : breve viaggio tra mente e corpo, Roma : Carocci, 2012.
I trial clinici su medicinali e terapie devono tener conto dell’effetto placebo, ovvero di come l’aspettativa di ricevere un beneficio di per sé dia un beneficio. Quindi se si vuole testare l’efficacia di un farmaco, non si può semplicemente usare come campione di controllo un gruppo che non lo riceve. Anche una sostanza inerte, se il paziente crede che sia un farmaco, può produrre un miglioramento. Quindi per valutare l’efficacia di un farmaco si dovrà dare ad un gruppo qualcosa che per il paziente (ma anche per il medico che lo somministra, per realizzare il “doppio cieco”) sia indistinguibile dal farmaco, ma non abbia proprietà curative.
Benedetti osserva che “la storia della medicina equivale più o meno alla storia del placebo” dato che “la maggior parte delle terapie sviluppate nei secoli passati era in realtà un placebo, cioè priva di qualsiasi reale azione curativa” (p.17). L’autore nota comunque che “l’utilizzo di terapie bizzarre e inefficaci non è solo una caratteristica della medicina prescientifica, essendo presente anche ai giorni nostri”. Le cosiddette “medicine alternative” che sono ritenute “efficaci, anche se non hanno passato i test rigorosi della medicina moderna” (p.18) ne sono un esempio. I loro risultati positivi sono infatti da attribuirsi alla fiducia che i pazienti ripongono in esse, ovvero nell’effetto placebo, e non in presunte proprietà smentite dalla ricerca scientifica (pp.61-64).
L’autore illustra come funzionano l’effetto placebo e la sua controparte, l’effetto nocebo (ovvero gli effetti negativi causati dall’aspettativa di un danno), quali meccanismi fisiologici possono essere coinvolti, quali possono essere gli utilizzi in campo medico delle conoscenze legate al placebo, quali sono i problemi etici coinvolti nel suo uso.
Il libro è scritto in un linguaggio accessibile anche ai non esperti in medicina. Solo poche pagine richiedono qualche conoscenza più approfondita, come avverte lo stesso autore che comunque, alla fine della trattazione, offre “un breve riassunto dei punti più importanti” a vantaggio di chi abbia trovato ostiche queste parti più tecniche.

John Lloyd – John Mitchison, Il secondo libro dell’ignoranza, Torino : Einaudi, 2012.
Come nel primo libro (recensione su “Mah”, n.11, marzo 2008, p.3), i due autori propongono una raccolta di curiosità scientifiche e storiche, smentendo molte convinzioni che, per quanto errate, sono molto diffuse.
Nonostante l’affermazione sia spesso ripetuta, il Partenone non è stato costruito con misure basate sulla sezione aurea (p.76). Il nome di Cleopatra richiama ovviamente alla mente l’Egitto, ma la più famosa delle regine d’Egitto non era egiziana, bensì greca (pp.99-101). Anche se in fumetti, cartoni animati e illustrazioni di libri i vichinghi vengono contraddistinti dal fatto che indossano elmi con le corna, non c’è alcuna base storica per attribuire loro tale copricapo: l’unico elmo vichingo rimasto non ha corna e l’uso di elmi non doveva neppure essere comune perché le immagini della loro epoca mostrano i guerrieri vichinghi in battaglia a capo scoperto o con calotte di cuoio (pp.187-188). Contrariamente a quanto forse vi avranno persino insegnato a scuola, i diversi gusti si sentono su tutta la lingua e non sono localizzati ciascuno in una parte diversa di essa (pp.180-182). Passando dalla lingua ai denti, un dente lasciato una notte (o anche per un tempo più lungo) in un bicchiere di coca-cola non si scioglie (pp.215-216).
Talvolta sfatare miti popolari ha un’utilità pratica. Per esempio, è bene sapere che l’uso di far piegare la testa all’indietro in caso di epistassi (il “sangue dal naso”) è sbagliato. E’ opportuno, invece, tenendo la testa in avanti, premere contro il setto con un dito la parete del naso dalla parte sanguinante, favorendo così la coagulazione (pp.178-179).
Anche a meticolosi cacciatori di false credenze come Lloyd e Mitichison può capitare di prendere per buona qualche notizia dubbia. Nel libro si legge che i tassi del miele sono guidati agli alveari dagli uccelli chiamati indicatori (p.42). Questo presunto rapporto di simbiosi viene spesso citato, ma, come si notava in un articolo della nostra rivista (Giorgio Castiglioni, I cercatori di miele, “Mah”, n.21, giugno 2011, pp.1-2), a sostegno ci sono solo aneddoti, mentre le osservazioni fatte con metodo scientifico non hanno mai confermato questa storia.
Giustamente Lloyd e Mitchison scrivono che la pretesa della grafologia di poter individuare il carattere in base alla scrittura non ha fondamento scientifico e citano il giudizio della British Psychological Association che paragona la grafologia all’astrologia (pp.207-208). Scrivono però che l’analisi grafologica darebbe “risultati affidabili” per indicare “eventuali tendenze suicide”, citando a questo proposito “una ricerca pubblicata nel 2010 sull’«International journal of clinical practice»”. Da come viene descritto, l’articolo dovrebbe essere Graphology for the diagnosis of suicide attempts: a blinded proof of principle controlled study, di S. Mouly e colleghi, pubblicato però nel 2007, mentre proprio in un numero del 2010 di tale rivista è stato pubblicato un commento critico di Sergio Della Sala (Unjustified tribute of graphology) nel quale si faceva notare come da quella stessa ricerca risultasse che studenti di medicina senza preparazione in grafologia avevano ottenuto risultati analoghi a quelli dei grafologi. Dunque la ricerca di Mouly e colleghi dimostrerebbe che, se anche vi fosse la possibilità di notare nella scrittura una tendenza al suicidio, l’occhio del grafologo non la vede più dell’occhio del profano oppure che, nonostante gli autori dicano di aver escluso dai conteggi le lettere da cui emergevano sentimenti di tristezza, il giudizio sia stato influenzato (anche inconsciamente) dal contenuto delle lettere, indipendentemente dalla grafia con cui erano scritte.

William Hartston, Le cose che non sappiamo : 501 casi di comune ignoranza, Torino : Bollati Boringhieri, 2012.
In una serie di brevi capitoli (in poco meno di 400 pagine sono prese in esame 501 domande) il libro propone curiosità scientifiche, storiche e letterarie, dalle proprietà dell’acqua allo yeti passando, per fare qualche esempio, per le composizioni musicali di Schubert e Beethoven, Atlantide, William Shakespeare, la costante di Hubble.
Il testo offre sicuramente molti spunti interessanti anche se in più casi a informazioni fondate ne accosta, senza distinzioni sulla rispettiva attendibilità, altre che sono invece poco plausibili. Nel capitolo sull’omeopatia (pp.226-227), per esempio, da una parte riconosce che “da un punto di vista rigorosamente scientifico, gli effetti benefici dei farmaci omeopatici non sono mai stati dimostrati”, ma poi cita gli esperimenti sulla “memoria dell’acqua” di Luc Montagnier come se le sue presunte scoperte avessero riaperto la discussione. In realtà, per quanto Montagnier sia un nome di rilievo nella virologia (premio Nobel 2008 per la medicina), i suoi esperimenti sulla “memoria dell’acqua” sono decisamente poco convincenti. D’altra parte, qualunque sia la spiegazione che si voglia addurre, resterebbe il fatto che non esiste il fenomeno che si intenderebbe spiegare dato che le prove fatte con maggiore rigore scientifico hanno mostrato che l’omeopatia non ha alcuna efficacia se non in virtù dell’effetto placebo.
Vengono citate anche le affermazioni di Rupert Sheldrake sui cani “sensitivi”, sia pure con una certa prudenza, usando il verbo “sembrare” (“diversi casi di cani che sembravano conoscere, a distanza, i movimenti dei loro padroni”) e aggiungendo che “più di uno studioso si dice alquanto scettico” (p.66) – il che è un eufemismo, dato che le idee di Sheldrake non hanno proprio seguito all’interno della comunità scientifica.
A proposito della carta di Piri Reis (p.71), Hartston afferma come si trattasse di un dato di fatto che vi sarebbe raffigurata “anche la costa settentrionale dell’Antartide”. Il tratto di terra così interpretato dagli amanti dei misteri è, però, semplicemente la punta meridionale dell’America del Sud piegata verso l’alto.
Un’affermazione che può lasciare perplessi è quella secondo la quale il numero di atomi nell’universo sarebbe “stimato intorno a 1080” (p178), ma si tratta, in questo caso, di un banale errore di formato dei caratteri: l’80 doveva essere un esponente e il numero, quindi, non 1080 ma 10 alla 80. Lo stesso vale per i “10 120 giochi diversi” negli scacchi citati nella medesima frase: è 10 alla 120, stima conosciuta con il nome di “numero di Shannon”.