BIBLIOTOPIA > PUBBLICAZIONI > MAH

MAH, n.32, giugno 2013, pp.1-4

LIBRI

Roberto Giacobbo, Da dove veniamo? : la storia che ci manca, Roma : Rai Eri ; Milano : A. Mondadori, 2012.
Una delle idee ricorrenti nella trasmissione televisiva “Voyager” è quella che un tempo (la data spesso citata è il 10450 a. C.) sarebbe esistita una civiltà evoluta poi scomparsa misteriosamente, ma la cui esistenza sarebbe testimoniata da diverse opere sparse qua e là nei vari continenti che sarebbero stati raggiunti da quel popolo. E’ questo il tema del nuovo libro del conduttore di “Voyager”, Roberto Giacobbo, che ripropone in queste pagine quanto ci ha raccontato tante volte il suo programma.
Si parla della proposta di identificare Atlantide con la Sardegna (pp.38-40). Atlantide è in realtà una terra immaginaria e non c’è neppure nessuna ragione di pensare che Platone, quando la inventò, pensasse alla Sardegna. Allo stesso modo è priva di fondamento l’idea di porre Atlantide in rapporto con Stonehenge (p.118). C’è pure un riferimento alle presunte “strutture subacquee in mezzo all’Oceano Atlantico” nelle quali, secondo Giacobbo, “sembrava davvero di vedere i quartieri di una città, strade che si intersecavano esattamente a 90 gradi, incroci precisi, nati da un’intelligenza e non dal caso” (p.39). I presunti quartieri e strade, però, non sono neppure “nati”: sono solo un artefatto nella composizione delle immagini. Qualche parola viene spesa anche su un’altra terra perduta (anche se sarebbe meglio dire “mai esistita”), Mu (pp. 40-41). Vengono riferite le tesi di chi ritiene che i poemi omerici siano ambientati nell’area baltica (pp.89-92).
Passando all’Egitto, una terra spesso protagonista di servizi di “Voyager”, spuntano la raffigurazione nel tempio di Dendera che per gli amanti della storia “misteriosa” rappresenterebbe una lampada simile a un tubo di Crookes (pp.57-59), l’idea che la Sfinge vada datata a un periodo molto anteriore a quello assegnatole dagli esperti (p.61) e persino la fantascientifica storia dello “zed” che avrebbe il potere di alterare lo scorrere del tempo (pp.64-68).
Si racconta delle carte geografiche che indicherebbero la conoscenza dell’America prima della scoperta da parte di Cristoforo Colombo (pp.34-37). E’ curioso che mentre cerca di accreditare ipotesi poco plausibili, il libro dimentica completamente di citare uno sbarco in America prima di Colombo che invece è ben documentato, quello dei Vichinghi circa cinque secoli prima del navigatore genovese.
Si parla di imprecisate energie della terra (pp.32-33) o “energie sottili” (pp.107-109). Si afferma anche che nell’antica India potevano esserci veicoli (vimana) che volavano grazie alla scoperta dell’antigravità (p.128). Visto che ormai si è entrati nella fantascienza, ecco anche una guerra atomica che sarebbe stata scatenata in tempi antichi (pp.130-134). La cosa buffa è che Giacobbo conclude dicendo che “non bisogna credere ciecamente a tutto”, ma in questo caso avremmo “una serie così numerosa di fatti e prove” che “si concatena con […] precisione” (p.134).
Qualche pagina dopo, Giacobbo scrive: “Il dorso di una tartaruga conta 33 sezioni che, se si aggiunge la lastra centrale cervicale, diventano 34, di cui 21 di forma circolare e 13 di altre forme, collocate cinque al centro e otto intorno. E questi sono i termini della famosa sequenza di Fibonacci, che inizia proprio con 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21 e 34. Nulla di strano, se consideriamo che lo stesso Fibonacci ha sempre affermato di aver ricavato la sua sequenza proprio dai disegni della natura. La corazza della tartaruga ne è un esempio” (p.148).
In realtà non è così. Per essere considerate significative, due o più corrispondenze devono ovviamente essere tra loro indipendenti. La sequenza di Fibonacci è basata su addizioni. Come è noto, la sequenza parte con 0 e 1 e di seguito ogni numero è la somma dei due precedenti. Dunque se il numero degli scuti vertebrali corrisponde a un numero della sequenza (5) e il numero degli scuti costali a quello successivo (8), che la loro somma corrisponda al numero che segue (13) è una conseguenza necessaria e non è una corrispondenza indipendente. Dunque, il 13 va scartato.
Va eliminato anche il 21. Gli scuti a cui l’autore fa riferimento sono evidentemente quelli marginali (che peraltro non sono “di forma circolare” – semmai sono disposti in circolo lungo il bordo del carapace) e sono in genere 25 (ma non tutte le specie di tartarughe hanno lo stesso numero di scuti e alcune, come le dermochelidi, non li hanno neppure). Di conseguenza, va tolto anche il 34 che si basa sul 21 e inoltre, anche se fosse corretto, non sarebbe una corrispondenza significativa per il motivo già detto a proposito del 13.
Rimangono dunque solo il 5 e l’8. In effetti, le tartarughe hanno in genere cinque scuti vertebrali e otto costali. Ovviamente due soli numeri sono troppo poco per ipotizzare un rapporto con la sequenza di Fibonacci. Tra il numero degli scuti vertebrali e costali un rapporto c’è, ma è di natura geometrica. Come si può notare guardando una tartaruga, gli scuti verterbrali e quelli costali sono disposti a incastro, in modo che tra due vertebrali ce n’è uno costale, così che a cinque scuti vertebrali ne corrispondono quattro costali su ciascun lato, dunque otto in tutto.
Giacobbo ripropone (p.188) anche la storia secondo la quale il disegno del ragno di Nazca rappresenterebbe un aracnide dell’ordine dei ricinulei e mostrerebbe l’organo riproduttivo, “invisibile ad occhio nudo”, collocato sulla zampa. Ironicamente commenta: “Si tratterebbe solo di una coincidenza…”. In realtà, non si tratta neppure di una coincidenza. Come abbiamo già scritto in un’altra recensione (al libro di Stefano Mayorca Enigmi, misteri e leggende di ogni tempo, in “Mah”, n.23, marzo 2011), tale identificazione è del tutto infondata. L’animale raffigurato non è un ricinuleo e non vi è alcuna ragione per dire che sia un organo riproduttore il tratto collegato alla zampa che, peraltro, non è neppure quella su cui i ricinulei hanno tale organo.

Stephen L. Macknik e Susana Martinez-Conde, con Sandra Blakeslee, I trucchi della mente : scienziati e illusionisti a confronto, Torino : Codice, 2012.
I trucchi degli illusionisti si basano spesso sul trarre in inganno la mente degli spettatori. La loro “magia” è dunque un campo d’indagine che può essere interessante per la scienza. Stephen Macknick e Susana Martinez-Conde, neuroscienziati, si sono quindi immersi nel mondo dell’illusionismo e in questo libro spiegano i meccanismi cerebrali che entrano in azione quando si assiste a (e si viene ingannati da) un gioco di prestigio.
Un capitolo (il terzo) è dedicato alle illusioni ottiche.
Anche alcuni presunti fenomeni paranormali sfruttano illusioni di varia natura e gli autori giustamente scrivono che “quando un sensitivo, un guaritore, un medium o un ciarlatano sfidano le leggi di natura c’è sempre un’illusione in agguato” (p.39).
Le sedute con la tavola ouija e l’uso del pendolino sono esempi dell’effetto ideomotorio: le persone compiono loro stesse, inconsciamente, quei movimenti che erroneamente attribuiscono a cause paranormali (pp.187-189).
Macknik e Martinez-Conde raccontano anche della loro visita, nel 2010, a una fiera del paranormale a Sedona (Arizona) definendo “deprimente” quanto da loro visto in quell’occasione (p.200). Lì si imbattono in persone che mostrano prodotti presentati con affermazioni pseudoscientifiche, come le torce “ad accelerazione quantistica” e i braccialetti che danno equilibrio e salute “allineando i protoni del tuo corpo” (p.200). Martinez-Conde interpella anche i sensitivi e, conoscendo i loro trucchi, guida le loro risposte: “quando sorrideva e assentiva, i “chiaroveggenti” si sentivano incoraggiati a procedere su un certo argomento, ma non appena lei alzava le sopracciglia o corrucciava lo sguardo cambiavano rotta” (pp.203-204). La conclusione degli autori è netta: “se i maghi [ovvero gli illusionisti, ndr] sono artisti dell’attenzione e della consapevolezza, i sensitivi sono impostori che si spacciano per stregoni” (p.203).

Ghost Hunters Team, Il manuale dei cacciatori di fantasmi, Milano : Mursia, 2012.
Dopo la televisione, con la partecipazione al programma di Italia 1 “Mistero”, il Ghost Hunters Team raggiunge anche le librerie con un testo che racconta la loro attività di cacciatori di fantasmi.
Riprendendo affermazioni diffuse nel loro settore (cfr p.117), i ghost hunters ritengono che la presenza di fantasmi possa essere indicata da anomalie nei campi elettromagnetici o nella temperatura e quindi si sono dotati di strumenti come rivelatori di campi elettromagnetici e termocamere. Il ricorso alla tecnologia non può però nascondere che tutto ciò si fonda sul nulla dato che nessuno ha mai dimostrato l’esistenza di un fantasma.
Sembrerebbe poi che, oltre che ai cacciatori di fantasmi, i rivelatori possano essere utili ai fantasmi stessi se hanno voglia di fare due chiacchiere con chi li cerca: nel libro si può infatti leggere un dialogo surreale tra i ghost hunters che pongono le domande e un’entità che risponderebbe facendo accendere in sequenza le lucine dello strumento (pp.169-174).
Secondo il Ghost Hunters Team, i fantasmi, oltre che con i campi elettromagnetici, potrebbero manifestarsi “col chakra di un medium” (p.15). A dir la verità, nessuno ha mai dimostrato o anche solo dato qualche indizio convincente dell’esistenza dei chakra e di facoltà medianiche, ma questo non ha scoraggiato i cacciatori di fantasmi che hanno inserito nella loro formazione anche un “sensitivo” che dice di “sentire che l’entità con la quale sono in contatto, parla vicino al mio orecchio” (p.199). Lo stesso sensitivo, nella descrizione di un’indagine svolta dal gruppo, parla della “possibilità di interferenze con le nostre auree” (p.169). Le aure in questione non sono i disturbi visivi così denominati in medicina, ma una presunta emanazione del corpo della cui esistenza, tanto per cambiare, non esiste alcuna prova.
Analogamente quando si legge di una ragazza vittima di “una probabile infestazione larvale” (p.90) si potrebbe pensare a un caso di cisticercosi o di altra parassitosi, ma i cacciatori di fantasmi intendono invece che una presunta entità spiritica (la “larva”, appunto) si sarebbe installata nel corpo della sfortunata.
La parola “energia” viene usata in un modo vago che nulla ha a che fare con il corretto uso in fisica. Per esempio degli orbs (un fenomeno ottico causato dalla luce del flash su particelle di polvere o altri corpuscoli fuori fuoco davanti all’obiettivo) si dice che potrebbero essere “forme semplici di energia” oppure “una proiezione di energia, auto-prodotta da individui assolutamente fisici e reali, che si evidenzia sotto forma di «globi di energia»” (p.34). Sono però parole che non hanno alcun significato scientifico.
Secondo i cacciatori di fantasmi, entità conosciute come “larve, baronti, spiriti burloni, vampiri astrali […] si servono dell’emotività umana (e delle passioni) per procurarsi l’energia della quale si alimentano” (p.87). Le misteriosi entità che possono nutrirsi di queste misteriose “energie” umane, comunque, si accontentano spesso di uno spuntino con energia di più umile provenienza, come quella delle batterie che vengono trovate scariche durante le indagini (“Energia che poteva servire a qualcuno o a qualcosa?” – p.145) o “anche quelle piuttosto deboli dovute alla dispersione attorno ai cavi che trasportano la corrente” (p.180).
Viene anche citato un caso in cui si è fatto ricorso all’ipnosi regressiva (pp.58-59), una pratica priva di fondamento scientifico.
I ghost hunters affermano che “negli ambienti collegati a infestazioni demoniache, viene spesso rilevata la presenza di insetti non simpatici e fastidiosi” (p.43). In effetti il fastidio che le zanzare danno potrebbe essere definito “demoniaco” e quindi, per una volta, il consiglio di stare attenti “a cogliere questi segnali e a non fermarvi lì” può avere senso. In alternativa, avrebbero anche potuto consigliare di accendere uno zampirone.

Lisa Signorile, L’orologiaio miope, Torino : Codice, 2012.
Dal calamaro vampiro agli acari, dal desman al proteo, dal pitouhi alle vipere, il libro raccoglie una serie di interessanti storie del mondo animale. Uno dei capitoli (pp.43-49) è dedicato al candirù (Vandellia cirrhosa), un piccolo pesce che si infila nelle branchie di altri pesci e ne strappa a morsi qualche pezzetto per cibarsene.
Si racconta che il candirù potrebbe attuare un comportamento simile anche nei confronti di uomini che entrano nelle acque dove vive, introducendosi nelle aperture del corpo e in particolare nel pene, attratto dall’urea. Sarebbe persino pericoloso urinare dalla riva dentro l’acqua perché il portentoso animaletto sarebbe addirittura in grado di abbandonare l’acqua risalendo nel getto di urina fino a raggiungere il pene. Questa impresa natatoria, come scrive l’autrice, “sembra vada anche oltre la leggenda metropolitana”. Comunque, nelle osservazioni fatte in laboratorio il pesce parassita non si è mostrato attratto dall’urea (che, annota Signorile, è prodotta dagli uomini, ma non dai pesci che sono il suo bersaglio accertato) e neppure dall’ammoniaca (prodotta dai pesci, ma non dagli uomini) e ha invece fatto uso della vista per raggiungere le sue vittime.
L’autrice nota che, per quanto la storia sia diffusa, raramente ci sono indicazioni precise sui presunti casi in cui il pesce si sarebbe insediato nell’uretra di un malcapitato. Cita quindi due casi sui quali c’è qualche informazione in più, ma mostra come neppure questi possano essere ritenuti delle prove convincenti. Nel 1945 un chirurgo della marina statunitense avrebbe operato tre persone, ma non c’è documentazione clinica e quindi anche in questo caso non si va molto oltre l’aneddoto. Nel secondo caso, del 1997, è stata tenuta una documentazione fotografica e sono stati conservati i resti del pesce estratto dal povero paziente, un ragazzo di 23 anni. Tuttavia il biologo Stephen Spotte, che ha parlato con il chirurgo e visto i resti dell’animaletto, ha concluso che la storia lascia molti dubbi, a partire dall’affermazione che il candirù sarebbe saltato fuori dall’acqua per attaccare il ragazzo, e che è più probabile che, per un comportamento patologico, sia stato il ragazzo stesso a inserire il pesce nell’uretra.