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MAH, n.39, marzo 2015, pp.1-4
LIBRI
Le cellule della
speranza : il caso Stamina tra inganno e scienza, a cura di Mauro Capocci
e Gilberto Corbellini, Torino : Codice, 2014.
Le cellule staminali sono oggetto di studi per il loro impiego in medicina.
Accanto alle ricerche fatte con metodo scientifico, però, sono spuntate
proposte di terapie che, pur affermando di avere grandi risultati dalla loro
parte, non sono riuscite ad offrire alla comunità scientifica prove convincenti,
come nel caso Stamina che tanto scalpore ha avuto in Italia.
Nel suo saggio raccolto in questo volume, Paolo Bianco, esperto di staminali
mesenchimali, scrive che nel caso Stamina, così come in altri esempi
simili in Messico, Guatemala, Cina, Thailandia, Panama, le staminali sono diventate
“in realtà quella cosa di cui parlano i mercanti, e non la cosa
ben diversa di cui parlano la scienza e la medicina” (p.46).
Lo studioso nota che i media hanno fatto sovente cattiva informazione, sostenendo
a ragione che anche una pretesa equidistanza dalle due parti, come se si trattasse
di due punti di vista con uguale grado di validità, è come una
“par condicio tra il fuoco e i pompieri” (p.47).
Bianco parla giustamente di “ideologia” per tante affermazioni sulle
“cure compassionevoli” e sulla “libertà di cura”.
“Per “uso compassionevole” di un medicinale” spiega
lo studioso “si intende l'uso nel caso singolo, a richiesta, a titolo
gratuito, di un medicinale non ancora approvato per il commercio, ma in ogni
caso sottoposto a sperimentazione clinica ufficiale e vigilata. Nella strategia
commerciale di una varietà di imprese, l'uso compassionevole è
invece distorto in una separata e distinta categoria di “terapie”,
costitutivamente sottratte a una qualsiasi vigilanza” (pp.66-67).
Lo slogan della “libertà di cura”, osserva Bianco, “è
solo una sciocchezza”: “a spese proprie e nel salotto di casa propria,
se si vuole si può prendere l'olio di serpente. In nome della “libertà
di cura individuale”, invece, si vuole che l'olio di serpente autoprescritto
sia poi ordinato da un tribunale, approvato dal governo, somministrato in un
ospedale pubblico e pagati dalla collettività. La “libertà
di cura”, dunque, non è la libertà individuale del paziente:
[…] è la libertà di vendere olio di serpente senza essere
né esperto di serpenti, né medico; e in più, gratis per
i pazienti, e a spese dello Stato” (p.68).
Il terzo capitolo del libro (pp.73-105) è costituito da un'intervista
a Michele De Luca e Graziella Pellegrini, ricercatori del centro di Medicina
Rigenerativa di Modena. Nelle sue risposte, De Luca, pur ricordando che alcune
norme hanno causato ritardi al loro lavoro, ribadisce che una regolamentazione
è necessaria: “Nonostante tutto, ora, queste normative, che ci
sono costate tanta fatica, le sto difendendo: inizialmente le ho in qualche
modo contestate, ma ora le difendo perché ho capito che servono a evitare
casi come quello di Stamina” (p.95). Sostiene che si può migliorare
la normativa, eliminando ciò che crea costi e intralci inutilmente, ma
ritiene che anche nel campo delle staminali “è necessario controllare
[...] in maniera perfetta, come si fa per il farmaceutico” (pp.100-101),
mentre “Stamina e aziende simili anche scientificamente più presentabili
vogliono deregolamentare e vogliono che anche le terapie a base di cellule staminali
siano considerate dei trapianti. Il trapianto ha una regolamentazione completamente
diversa: non c'è bisogno di fase I, II e III, di dimostrare l'efficacia
e l'assenza dei rischi” (p.101).
In appendice, il volume presenta una “cronologia essenziale del caso Stamina”
(di Stefania Bettinelli e Gilberto Corbellini, pp.189-234) e una della ricerca
sulle cellule staminali e della loro regolamentazione e commercializzazione
(di Paolo Bianco, Mauro Capocci e Gilberto Corbellini pp.235-256).
Arthur Machen, Gli
angeli di Mons, a cura di Romolo Giovanni Capuano, Fidenza : Mattioli 1885,
2014.
Nella battaglia di Mons (23 agosto 1914), durante la prima guerra
mondiale, le truppe britanniche erano in netta inferiorità rispetto a
quelle tedesche, ma riuscirono a fermarle. Questo evento bellico ispirò
ad Arthur Machen un racconto nel quale i fantasmi degli arcieri inglesi della
battaglia di Azincourt (1415) apparivano per sostenere i soldati britannici.
La casa editrice Mattioli 1885 presenta in un libretto questa storia di Machen
insieme ad alcuni altri suoi racconti, con un'introduzione e un post-scriptum
in cui l'autore fa il punto sulle curiose vicende che seguirono la pubblicazione
del suo racconto degli arcieri. La storia, infatti, fu presa come un vero resoconto
di quanto sarebbe stato riferito dai soldati e come tale continuò a circolare,
soprattutto in varianti in cui al posto degli arcieri comparivano degli angeli,
anche se Machen aveva spiegato che non aveva mai avuto notizie e neppure “delle
dicerie o delle allusioni” (p.12) su un simile evento e che “il
racconto era una mera invenzione” letteraria (p.15). Si riferì
di soldati che avrebbero visto gli angeli, ma, notava Machen, non c'era neppure
un solo resoconto di prima mano (pp.20-21, 55-58).
Le smentite di Machen non fermarono la diffusione della leggenda delle apparizioni
di Mons. Una soluzione davvero assurda fu trovata un tale Harold Begbie che,
come riferisce Romolo Giovanni Capuano in un contributo incluso nel libro, affermò
che Machen poteva aver ricevuto telepaticamente l'esperienza fatta dai soldati
a Mons (pp.71-72).
Ci fu anche chi volle dare una spiegazione razionale ipotizzando che le figure
viste dai soldati potessero essere il prodotto di allucinazioni (pp.18-20),
ma ovviamente era del tutto inutile trovare una spiegazione per un fatto che,
in realtà, non era successo. Lo stesso si deve dire della curiosa ipotesi
secondo la quale si sarebbe trattato di luci che i tedeschi avrebbero proiettato
in cielo per spaventare le truppe nemiche ottenendo però il risultato
opposto: scambiati per angeli, avrebbero dato coraggio ai britannici (p.72).
Insomma, chi propose queste due ultime ipotesi dimenticò il primo passo
da fare: verificare se ciò di cui si parlava era davvero avvenuto.
Ornella Corazza,
Viaggi ai confini della vita, Milano : Feltrinelli, 2014.
Il libro parla delle near death experiences (NDE), ovvero di
esperienze provate da chi è stato vicino alla morte, per esempio per
un arresto cardiaco. Alcuni autori hanno segnalato una serie di elementi che
ricorrono in queste esperienze, come un senso di benessere, la sensazione di
uscire dal proprio corpo o il passaggio in un tunnel buio che porta verso una
luce. Questi elementi non si presentano sempre: per esempio, il tunnel, spesso
citato come emblematico delle NDE, è comparso solo nel 23% dei resoconti
di queste esperienze raccolti in una ricognizione di Kenneth Ring citata dall'autrice
(p.63).
Nel libro si prendono in esame le NDE sia in Occidente che in Oriente (in particolare
in Giappone): l'autrice ritiene che, “nonostante le NDE abbiano spesso
una struttura comune”, ci siano anche notevoli differenze tra le esperienze
nelle diverse aree (pp.83-114).
Secondo l'autrice per comprendere fenomeni come le NDE o le sensazioni provate
da chi ha fatto uso di ketamina (descritte e confrontate con le NDE nel quarto
capitolo del libro) si dovrebbe far riferimento al concetto di “corpo
esteso”, secondo il quale il corpo, con le sue percezioni e la coscienza,
sarebbe “un'entità indefinita, che […] non ha confini o delimitazioni
di natura fisica come la pelle” (p.160). Non esistendo, però, alcuna
prova dell'esistenza di questo “corpo esteso”, resta senza fondamento
la pretesa di spiegare con esso qualsivoglia fenomeno.
Corazza cita a sostegno della sua idea (per quanto le ritenga ancora limitate
da un “qualche tipo di dualità fra mente e corpo”) le affermazioni
di Rupert Sheldrake su “mente estesa” e “campi morfogenetici”
(pp.49-51), ma neppure queste asserzioni hanno dimostrato la loro validità.
L'autrice chiama in causa (pp.171-174) il qi, una presunta “energia vitale
che pervade ogni corpo umano, così come l'intero universo” (p.171).
Non vi è tuttavia alcuna prova che il qi esista.
Giorgio Dobrilla,
Illusioni, afrodisiaci e cure miracolose : le mille balle sulla salute...
e non solo, Roma : Il pensiero scientifico, 2014.
Nella prima parte del libro, l'autore, medico gastroenterologo,
prende in esame, in capitoli di veloce lettura scritti con un linguaggio chiaro,
una serie di affermazioni infondate riferite alla medicina e alla salute. “Naturale”
non significa “buono”, ricorda per esempio Dobrilla (pp.3-5): ci
sono sostanze presenti in natura e non manipolate dall'uomo, dal vibrione del
colera al veleno dei serpenti che non sono certo salutari.
Il giudizio di un medico sull'efficacia di un medicinale in base all'esperienza
con i suoi pazienti “non può che essere un parere fasullo”.
Specialmente per “disturbi minori soggettivi”, “la maggior
parte dei pazienti […] non ritorna certo a controllo nel breve termine”
e in ogni caso anche coloro che riferiscono come è andata “possono
fornire solo informazioni individuali, aneddotiche, insufficienti a supportare
la validità delle medicine messe a disposizione, che non può che
evincersi da studi controllati su gruppi consistenti di individui e non sul
singolo paziente”. Si deve anche tenere presente che quel che succede
dopo una cura, non necessariamente avviene a causa della cura:
possono essere subentrati vari fattori e, inoltre, molti disturbi tendono a
passare anche da soli. Un motivo in più per sottolineare che, per una
vera valutazione, sono necessari studi controllati svolti con metodo scientifico
(pp.5-7).
Tra i bersagli di Dobrilla ci sono per esempio le facili promesse delle cure
anti-invecchiamento (pp.9-14) e gli epatoprotettori, liquidati come “una
balla gigantesca” (pp.57-60). Un capitolo è dedicato all'alimentazione:
si parla di acqua, latte, caffè, cioccolato, vino e di loro presunti
effetti positivi e negativi.
Un altro capitolo tratta delle “medicine alternative”, a partire
dai presunti rimedi antitumorali che hanno creato vane illusioni a tanti malati
e, peggio ancora, hanno distolto tanti dalle cure efficaci (pp.71-80). L'omeopatia,
fondata su “presupposti inconsistenti”, è solo un placebo
(pp.80-84). Del tutto priva di valore medico e pure la pranoterapia (pp.85-87).
Anche nel caso dei fiori di Bach “si tratta solo di una bufala”
(pp.94-97). Diverso è il caso della fitoterapia: è indubbio che
vi siano proprietà benefiche in tante piante. Resta però la necessità
di garantire un approccio scientifico nella valutazione della sicurezza, dell'efficacia
e del modo di utilizzarle: “studiata meglio” dice l'autore “dovrebbe
far parte della medicina convenzionale” (pp.88-94).
La seconda parte del libro è costituita da interventi di altri autori
su alcune bufale di carattere medico. Il primo di questi contributi è
quello di Silvio Garattini (pp.107-112) in cui si parla del ruolo degli informatori
farmaceutici e di alcuni problemi relativi agli studi clinici sui farmaci. “Una
vasta letteratura scientifica”, ricorda Garattini, ha mostrato che “gli
studi commissionati, pagati e controllati dall'industria farmaceutica risultano
più favorevoli al farmaco in esame rispetto agli studi realizzati da
organismi indipendenti non-profit”. Garattini indica alcuni aspetti
metodologici. Se esiste un farmaco di riferimento, gli studi dovrebbero essere
condotti confrontando il nuovo prodotto con quel farmaco e non semplicemente
con il placebo, in modo che il prodotto studiato debba dimostrare non solo di
avere un effetto, ma di essere anche valido rispetto a ciò che è
già in commercio. Sarebbe anche opportuno, aggiunge lo studioso, che
si ponesse come obiettivo la superiorità del farmaco testato rispetto
a quello di riferimento e non la semplice “non inferiorità”
(che, considerati i margini lasciati nella valutazione, potrebbe di fatto essere
anche una certa inferiorità). Altri punti indicati da Garattini sono
l'uso di parametri surrogati, le caratteristiche della popolazione di pazienti
soggetti dello studio, la maggiore facilità di pubblicazione per studi
con risultati positivi rispetto a quelli con risultati negativi, il fatto che
gli studi clinici non sempre riescano a individuare gli effetti avversi e sia
quindi necessaria un'azione di farmacovigilanza.
Lucio Lucchin (pp.152-160) invita a fare molta attenzione alle “miracolose
diete dimagranti”. Tra i suoi consigli ci sono quelli di “rifiutare
proposte che promettono cali di peso superiori a 1 kg a settimana”, “rifiutare
diete che presentano elenchi di cibi permessi e vietati”, “diffidare
di regimi associati all'acquisto di prodotti specifici”, “diffidare
di diete che propongono solo un regime alimentare senza un contemporaneo cambiamento
di altri stili di vita, ad esempio più movimento”.
La farmacologa Gabriella Coruzzi (pp.161-174) tratta la questione della pubblicità
di farmaci e altri prodotti usati per salute e benessere. L'autrice fa notare
i problemi che nascono dove, come negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda, è
permessa anche per farmaci soggetti a prescrizione la pubblicità diretta
al consumatore. In Italia la pubblicità di farmaci è permessa
solo per quelli “da banco”. Per gli integratori erboristici, scrive
Coruzzi, la faccenda “diventa nebulosa”: “l'etichetta, per
legge, non deve attribuire proprietà terapeutiche al prodotto”,
ma in pratica la pubblicità li fa passare per preparati che migliorano
la salute e danno benessere. La pubblicità può anche spingere
a far scegliere un farmaco di marca, più costoso, quando è presente
un farmaco generico che ha il medesimo effetto. Le pubblicità di diete
dimagranti e prodotti di bellezza usano spesso termini che possono suonare scientifici
al consumatore, ma che, in realtà, sono “espressioni senza significato
specifico”.
Salvo Di Grazia (pp.175-182) mette in guardia dalle presunte “diete anticancro”.
Nel suo contributo parla della dieta di Max Gerson, di quella di Giuseppe Nacci,
delle presunte cure proposte da Hulda Clark, della dieta alcalina. Per nessuna
di queste esiste alcuna prova di efficacia. Di Grazia nota come alcuni propositori
di presunte cure antitumorali suggeriscano anche di abbandonare le cure vere
e giustamente commenta: “Questo è il vero pericolo di certe pseudomedicine,
quando non sono pericolose per le loro caratteristiche lo sono indirettamente
perché sottraggono il paziente ad una speranza di cura”.