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MAH, n.41, settembre 2015, pp.1-4

LIBRI

Fritjof Capra – Pier Luigi Luisi, Vita e natura : una visione sistemica, Sansepolcro : Aboca, 2014.
Ero rimasto favorevolmente impressionato dal primo libro di Pier Luigi Luisi dal titolo Sull'origine della vita e della biodiversità in quanto l’autore cercava di rispondere alla domanda "cos' è la vita?" riuscendo a riassumere, in modo mirabile e senza particolari fronzoli, concetti attraverso cui era possibile dire che la vita è un complesso sistema chimico-fisico-biologico originatosi da fattori deterministici e contingenti che, attraverso un percorso a zig-zag, hanno portato alla complessità biologica che tutti noi siamo abituati a chiamare "vita".
Alla luce del mio entusiasmo, ho comprato un libro molto più completo che avrebbe dovuto chiarirmi meglio e più dettagliatamente le domande che lo stesso Luisi aveva lasciato in sospeso nel volume appena citato. Il volume più completo dal titolo Vita e Natura : una visione sistemica è stato scritto da Luisi in collaborazione con Fritjof Capra. Sì. L’autore del Tao della fisica, che può essere considerato come un compendio di sciocchezze pseudo-scientifiche in cui l’autore trova improbabili correlazioni tra la meccanica quantistica e le filosofie orientali.
Appena avuto tra le mani Vita e natura : una visione sistemica ho incominciato ad avere dei forti dubbi sulla possibile validità del contenuto del libro. Infatti, una prima valutazione del volume ha evidenziato che è stato pubblicato dalla Aboca, una casa di prodotti naturali, che nulla ha a che vedere con libri di carattere scientifico se non legati alla pubblicità dei loro stessi prodotti. Ovviamente, questo non deve essere un pregiudizio su cui basare la lettura di un lavoro come quello di Capra e Luisi che, per detta degli stessi autori, non è destinato a tecnici, ma alla divulgazione di concetti legati al significato sistemico di vita. Il mio primo problema, tuttavia, è nato dalla lettura della presentazione scritta da Massimo Mercati, direttore generale della Aboca. Infatti, uno dei passi che lascia molto l’amaro in bocca a chi conosce di chimica e biologia è il seguente: “La convinzione che i complessi molecolari naturali, sviluppati in millenni di evoluzione, possano rappresentare per la salute dell’uomo una fonte più efficace e sicura rispetto alla chimica di sintesi, trova un suo fondamento logico nel concetto di pattern, di interconnessione e co-evoluzione di tutti i sistemi viventi”. Queste parole evidenziano due cose: 1. Chi le ha scritte non tiene in alcun conto che esiste una relazione diretta struttura-attività per cui anche se una molecola è di sintesi ha gli stessi effetti di una molecola naturale sempre che la struttura chimica sia identica. In altre parole, il D-(+)-glucosio sia di sintesi che naturale è sempre uguale a se stesso. Al contrario, lo L-(-)-glucosio ha proprietà differenti. Basta, cioè, l’inversione della configurazione per produrre due “oggetti” con proprietà differenti. Lo stesso discorso si applica a tutte le molecole di carattere biologico. L’albume dell’uovo, per esempio, è un sistema proteico che ha una ben precisa attività biologica (serve per far crescere gli embrioni che si trasformeranno in pulcini). Quando, però, la sua struttura viene alterata (ovvero denaturata) per effetto della cottura, perde tutte le sue proprietà biologiche. Si tratta sempre dello stesso sistema ma con caratteristiche strutturali differenti e di conseguenza, nel secondo caso, senza alcuna funzione biologica. 2. Chi ha scritto l’introduzione al libro non si è reso conto, o forse non ha voluto farlo, che il libro tratta della differenziazione tra riduzionismo scientifico ed emergentismo. In altre parole, le proprietà di una singola molecola non consentono di definire quelle del sistema complessivo in cui essa è inserita. Queste ultime sono dettate dalla sinergia tra i singoli sistemi molecolari come, per esempio, nel caso delle proteine allosteriche tra cui l’emoglobina. Quest’ultima funziona in modo tale che man mano che una molecola di ossigeno si lega ad un gruppo eme (il gruppo funzionale dell’emoglobina), le altre molecole di ossigeno trovano la “strada” facilitata e si legano più velocemente ai gruppi funzionali restanti. In altre parole, la struttura molecolare dell’emoglobina viene modificata dall’addizione progressiva di molecole di ossigeno in tal modo rendendo più efficiente il processo della respirazione. Tutto questo è possibile grazie alla particolare conformazione della proteina ed alle interazioni tra le sue diverse subunità.
Andando più nel profondo del testo, gli autori mescolano teorie new age a descrizioni più o meno serie di fenomeni naturali, dimenticando, però, di dare delle definizioni precise di alcuni concetti da loro espressi. Per esempio, dimenticano a più riprese di definire in modo oggettivo il significato di “coscienza”. Questa viene richiamata più volte nel testo ed associata a processi quantomeccanici che, in realtà, sono di difficile applicazione nel campo macroscopico.
Il libro, nel suo insieme, è una delusione. Mi sembra un miscuglio illeggibile del Tao della fisica, con le idee strampalate di carattere new age propagandate da Capra, e le teorie biochimicamente ineccepibili descritte in Sull'origine della vita e della biodiversità da Luisi. Il problema focale del testo è che, se letto da persone con un grado di cultura scientifica medio-basso, può portare allo sviluppo di idee pseudoscientifiche di cui il mondo web è pieno e che contribuiscono all’abbassamento della qualità tecnico-culturale in atto oggi nel nostro paese. L’eradicazione di pregiudizi pseudo scientifici diventa, quindi, un lavoro immane ed improbo.
Sconsiglio vivamente la lettura del testo ad un pubblico di non addetti ai lavori che potrebbero esser tratti in inganno e non discernere sciocchezze new age da realtà oggettive attualmente condivise dalla comunità scientifica internazionale.
(Recensione di Pellegrino Conte).

Andrea Nicolotti, Sindone : storia di una reliquia controversa, Torino : Einaudi, 2015.
La Sindone di Torino è, come noto, un telo di lino con una doppia immagine umana, frontale e dorsale, che raffigura Gesù morto. Risale alla metà del XIV secolo ed era in origine a Lirey, in Francia, dove venne presentata come il lenzuolo nel quale fu avvolto il corpo di Gesù nella sua sepoltura, affermazione che accompagna la sua storia e che ancor oggi trova numerosi sostenitori nonostante i dati storici e scientifici mostrino che si tratta di un manufatto medievale.
Nicolotti presenta con rigore storico, testimoniato anche dalle puntuali note, la storia della Sindone dalla sua comparsa a Lirey (e già in una lettera del vescovo di Troyes del 1389 si diceva che era un falso di recente fattura esposto per attirare donazioni – p.70) a oggi.
Oltre alle vicende reali della Sindone, Nicolotti racconta anche i tentativi di attribuire al telo una storia a esse anteriore e ne mostra l'inconsistenza. Secondo questa storia immaginaria, per esempio, il Mandylion di Edessa altro non era che la Sindone. Sul Mandylion però era raffigurato solo il volto di Gesù (i sostenitori dell'identificazione tra Mandylion e Sindone cercano di aggirare il problema asserendo che il telo era piegato in modo tale che si vedesse il solo volto: ovviamente tale spiegazione non può essere convincente) (pp.293-296). Si è pure detto che in due immagini contenute nel codice Pray (pp.302-306) si vedesse la Sindone, ma anche questa affermazione è senza fondamento (ne avevamo parlato nella recensione a I templari e la sindone di Cristo di Barbara Frale, pubblicata sul n.20, giugno 2010, di questa rivista). In questa “invenzione di una storia” (p.282) compaiono anche (potevano mancare?) i Templari, che avrebbero custodito la Sindone (pp.297-300).
La datazione desunta dalla documentazione storica è stata anche confermata dal noto esame del carbonio 14, svolto nel 1988, che ha dato come risultato un periodo tra il 1260 e il 1390 (pp.306-313). Neppure questo verdetto ha frenato, però, gli “autenticisti” che, per respingere la datazione, si sono impegnati a escogitare ipotesi ad hoc come quella che chiama in causa l'incendio del 1532 asserendo che avrebbe prodotto un'alterazione della concentrazione del carbonio 14 tale da fare apparire più recente il telo di oltre un millennio, una variazione che non è plausibile (p.318), o persino la fantasiosa idea di una “patina bioplastica” prodotta da un fungo che si sarebbe sovrapposta al tessuto (p.321).
Tra le presunte prove scientifiche a favore degli “autenticisti” ha acquisito una certa popolarità quella avanzata da Max Frei-Sulzer che disse di aver trovato sulla Sindone pollini di specie originarie dell'area in cui visse Gesù e di altre presenti nei luoghi dove sarebbe stata la Sindone nella sua storia reale e immaginaria. Gli esperti di palinologia, però, non ritengono attendibili le sue affermazioni (pp.267-269).
Anche sul modo in cui si sarebbe formata l'immagine sulla Sindone ci sono ipotesi fantasiose come quella di Giulio Fanti secondo il quale sarebbe stato un lampo di energia emesso dal corpo di Gesù a imprimere la figura sul telo (p.336), mentre Alberto Carpinteri parla di reazioni piezonucleari che si sarebbero verificate in seguito a un terremoto (p.337).
Il telo conservato a Torino è indubbiamente la sindone più famosa, tanto che, quando si dice “la Sindone” senza ulteriore specificazione, viene naturale pensare ad esso, ma ci sono (o ci sono state) anche altre sindoni, anche più antiche, alle quali Nicolotti dedica alcune pagine: le sindoni di Acquisgrana e Compiégne (pp.18-19), di Cadouin (pp.19-20 – su di essa ci sono iscrizioni islamiche ed è datata all'XI secolo) e di Carcassonne (p.21 – la datazione con il carbonio 14 la pone tra XIII e XIV secolo), la “santa cuffia” di Cahors, (pp.21-22 – datata all'XI secolo), i teli di Ohanavan, in Armenia (pp.22-23), di Magonza (p.23) e di Roma (pp.23-24 – non più esistente). La popolarità acquisita nel tempo dalla Sindone oggi tenuta a Torino portò poi alla creazione di copie (p.171).
Non si deve vedere nella discussione sulla Sindone uno schieramento pro o contro il Cristianesimo o la Chiesa cattolica. Come Nicolotti ricorda, anche studiosi cattolici, come il canonico Ulysse Chevalier (pp.204-214), hanno contestato l'idea che la Sindone fosse il telo in cui fu avvolto Gesù.

Philip Ball, Al servizio del Reich : come la fisica vendette l'anima a Hitler, Torino : Einaudi, 2015.
Nella storia degi scienziati tedeschi nel periodo nazista “c'è senz'altro qualche eroe e qualche malfattore,” scrive l'autore nell'introduzione, “ma la maggior parte dei personaggi non è nessuna delle due cose”: la maggioranza restò in una “zona grigia”, senza prendere posizioni esplicite contro le direttive del regime, ma senza senza neppure sforzarsi per applicarle e talvolta trovando il modo di aiutare colleghi messi in difficoltà (pp.5-6).
Ball ha parole di elogio per Paul Rosbaud, Fritz Strassmann e Max von Laue.
Rosbaud, redattore della rivista scientifica “Naturwissenschaft”, aiutò persone ebree (tra le quali la fisica Lise Meitner) a lasciare la Germania e si infiltrò nel partito nazista per fare la spia per i servizi segreti britannici. “Se nella storia narrata in questo libro vogliamo trovare qualche eroe,” scrive l'autore, “Rosbaud è quello che ci si avvicina maggiormente” (pp.141-146).
Del fisico Max von Laue, Ball scrive che il suo “coraggio […] nell'affrontare la demagogia e le interferenze naziste fu rarissimo tra i fisici” (p.99).
Il chimico Fritz Strassmann aveva le carte in regola per una brillante carriera, ma la sua avversione per il nazismo gli rese le cose difficili. Quando l'associazione dei chimici tedeschi fu “nazificata”, Strassmann la lasciò, una scelta che gli precluse opportunità di lavoro in ambito accademico e privato. Ebbe comunque l'occasione di dimostrare le sue capacità quando Otto Hahn e Lise Meitner “riuscirono a procurargli un incarico di assistente a mezza paga”. Durante la guerra, ricorda Ball, Strassmann e la moglie nascosero nel loro appartamento un amico ebreo (pp.167-168).
Se rara fu l'opposizione aperta al nazismo, rara fu anche l'adesione convinta. “Solo un'esigua minoranza degli scienziati” scrive Ball “abbracciò con entusiasmo le dottrine nefaste del nazionalsocialismo” (p.5).
Di questa minoranza fecero parte Philipp Lenard e Johannes Stark, due fisici di fama che erano stati anche insigniti del premio Nobel, rispettivamente nel 1905 e nel 1919. “Un premio Nobel” osserva l'autore “non è garanzia di saggezza, umanità o grandezza di alcun tipo” (p.89). Ball ritiene, peraltro, che l'assegnazione del prestigioso riconoscimento non debba neppure essere sopravvalutata nel caso di Lenard e Stark. Lenard, secondo il giudizio dell'autore, “era un uomo insignificante: ottimo scienziato sperimentale nei momenti migliori, ma con una limitata profondità intellettuale” (p.89). Stark era “uno sperimentale confuso dalla complessità matematica che era entrata di recente a far parte della fisica” (p.94) e, “essendo un mediocre a cui era toccato un colpo di fortuna, si ritrovò scavalcato per incarichi accademici che era convinto di meritare” (p.95).
Lenard, “dato che non aveva una buona preparazione matematica, non padroneggiò la relatività né la meccanica quantistica e di conseguenza decise che non avessero senso” (p.91). Cominciò già negli anni Venti a blaterare su una “scienza ebraica” che sarebbe stata, a suo dire, connotata da astrattezza e priva di legami con la concretezza sperimentale. Principale bersaglio dei deliranti attacchi di Lenard era Albert Einstein (p.91).
Lenard e Stark vaneggiavano su una Deutsche Physik (“fisica tedesca”) da contrapporre alla “scienza ebraica”, ma si può dire, con le parole di Ball, che “la loro definizione di «scienza ebraica» consistesse più o meno in qualunque cosa i due non comprendessero, e che includessero nella «cricca ebraica» chiunque minacciasse di surclassarli scientificamente” (p.95).
Nonostante fosse in linea con il delirante antisemitismo nazista, la Deutsche Physik non riscosse all'interno del regime il successo che Lenard e Stark avrebbero voluto e fu “in definitiva ignorata” (p.89). In fin dei conti, per quanto vomitasse assurdità razziste, “la dirigenza politica era interessata ai risultati pratici”. L'autore, inoltre, ritiene che Lenard e Stark non fossero neppure abili a muoversi negli ambienti politici e che “Stark, in particolare, era più bravo a opporsi ai gerarchi del partito che a convincerli. […] Stark appoggiò spesso la fazione sbagliata: in campo politico non aveva più buon senso che in quello scientifico” (p.109).
Quale che sia l'esito dei tentativi dei suoi sostenitori, la vicenda della Deutsche Physik comunque “annichilisce il mito confortante che le scienze isolino dall'estremismo e da una profonda irrazionalità” (p.89).