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MAH, n.47, marzo 2017, pp.1-4

LIBRI

Maria Luisa Villa, La scienza sa di non sapere, per questo funziona, Milano : Guerini e Associati, 2016
La scienza funziona per quello che sa, certamente, ma anche perché è conscia che ci sono sempre nuove conoscenze da acquisire – in altre parole funziona anche perché, come dice il titolo di questo libro, “sa di non sapere”.
L'autrice riassume nel suo libro il modo di operare della scienza e sottolinea l'importanza di lavorare con metodo scientifico rigoroso se si vogliono raggiungere risultati attendibili. Ciò non intende essere una negazione dell'aspetto creativo cui, al contrario, Villa assegna un ruolo fondamentale. “La creatività” scrive “permea tutti gli aspetti della ricerca scientifica”. E', però, necessaria una “interazione tra l'immaginazione […] e il pensiero critico” (p.24).
Un rischio noto a chi fa ricerca è il bias di conferma, ovvero la tendenza a prestare maggiore attenzione a ciò che conferma le proprie idee rispetto a quel che è in contrasto con esse. Servono quindi una “metodologia attenta e uno sforzo organizzato per evitare di privilegiare interpretazioni che ribadiscono soltanto le nostre aspettative” (p.22).
La conoscenza scientifica può anche essere contro-intuitiva. L'autrice porta come esempi, ben noti, il modello eliocentrico (anche se oggi tale modello appare scontato in base alle conoscenze acquisite, si può ben capire come in secoli passati si potesse pensare che, invece, fosse il Sole a girare intorno alla Terra, dato che è ciò che sembra di vedere guardando il cielo durante il giorno), l'evoluzionismo (“non è facile immaginare che strutture incredibilmente complesse come quelle degli esseri viventi possano derivare da mutazioni casuali filtrate dalla selezione effettuata dall'ambiente”), la teoria della relatività (“è un esempio notissimo di interpretazioni che appaiono paradossali al senso comune”) (p.32).
Un mezzo fondamentale per diffondere le conoscenze scientifiche è la pubblicazione sulle riviste scientifiche che adottano il sistema della peer review (la “revisione paritaria”: gli articoli proposti alla rivista vengono sottoposti alla valutazione di esperti sull'argomento) (pp.55-62). Nonostante, richiedendo ovviamente del tempo per essere svolta, renda più lunghi i tempi di pubblicazione, la revisione paritaria è indubbiamente utile. Non va comunque considerata, ovviamente, come un verdetto definitivo: anche dopo la pubblicazione possono essere individuati errori sfuggiti ai revisori o addirittura essere scoperte frodi (p.61). Per quanto riguarda la possibilità che ci siano errori non notati in sede di peer review, l'autrice cita uno studio del “British medical journal” che aveva provato a mandare a 420 revisori abituali un articolo in cui erano stati inseriti appositamente “otto errori riguardanti la progettazione, l'analisi e l'interpretazione dei dati”: tra i 221 revisori che avevano risposto, la media di errori colti era di meno di due, nessuno ne aveva individuati più di cinque e il 16% non ne aveva notato nessuno (p.60). Come si è detto, questo non significa che la peer review sia inutile (lo stesso “British medical journal” continua ovviamente a farne uso), ma che non si deve “trasformare il giudizio dei pari in un mitico verdetto” (p.61). Ci sono poi le frodi. La peer review, nota l'autrice, si fonda “sulla fiducia che il testo da esaminare sia preparato con onestà e rispecchi fedelmente le osservazioni compiute” (p.59). I non pochi casi di articoli in seguito ritrattati dalle riviste in quanto fraudolenti testimoniano da una parte che una frode abilmente congegnata può superare la revisione, ma dall'altra che è più difficile che resistano poi a lungo quando altri studiosi cercheranno di ripetere lo studio e otterranno risultati incompatibili con quelli dello studio manipolato. L'autrice ricorda che anche in sede di revisioni possono esserci comportamenti scorretti, come sono quello di un revisore che faccia ritardare la pubblicazione di ricercatori “rivali” e addirittura che si appropri di dati e idee esposti nel lavoro affidatogli per la revisioni facendoli passare per suoi (p.60).

Il pregiudizio universale : un catalogo d'autore di pregiudizi e luoghi comuni, Bari - Roma : Laterza, 2016
L'intento del libro è quello di smentire una serie di pregiudizi e luoghi comuni, ciascuno affrontato da un differente autore in capitoli di poche pagine (quasi tutti ne hanno quattro o cinque e nessuno arriva a dieci).
I contributi hanno diversi approcci e non tutti sono ugualmente convincenti. Se, per esempio, si può apprezzare il testo di Carlotta Sami sui rifugiati (pp.180-188), in cui il tono appassionato si coniuga con argomentazioni e dati, altri interventi, come quello di Carlo Petrini su un “nuovo paradigma” nel consumo (pp.45-48) o quello di Sebastiano Mauri su donna e uomo (pp.110-113), appaiono invece molto retorici.
Lascia perplessi anche il capitolo scritto da Antonella Agnoli, che dovrebbe smentire il pregiudizio secondo il quale “le biblioteche sono luoghi noiosi” (pp.24-27). Per dimostrare che possono esistere “biblioteche «non noiose»”, l’autrice porta esempi di attività che non hanno a che fare con i libri (e altri documenti) svolte presso le biblioteche. Elogiando la biblioteca Dokk 1 di Aaarhus, in Danimarca, Agnoli sottolinea che “il cuore della biblioteca è uno spazio senza libri”. Se, però, per provare che una biblioteca può essere “non noiosa” si dice che ci si può trovare altro oltre ai libri, si asseconda implicitamente il pregiudizio che le biblioteche, per quel che hanno a che fare con i libri, siano luoghi noiosi.
Tra i capitoli ben fatti si possono segnalare quelli affidati a Giandomenico Iannetti, Marcello Ticca e Massimo Montanari.
Giandomenico Iannetti si occupa della famosa leggenda secondo la quale “usiamo solo il 10% del nostro cervello” (pp.41-44). “Le tecniche che permettono di valutare il funzionamento del cervello”, scrive, mostrano “chiaramente che non esistono aree silenti” e dunque che la storia del 10% è solo “un mito senza fondamento, e che non esistono pezzi di cervello che giacciono inutilizzati aspettando solo di essere messi in funzione”. I “primi neuroscienziati […] affermavano di comprendere solo una piccola parte del funzionamento del cervello (ammissione certamente tuttora valida)”, ma questo non significa che “quella piccola percentuale è la sola che usiamo”. Iannetti ritiene “non irragionevole” l'opinione “che la maggior parte delle persone non sfrutti appieno i propri talenti”, ma fa notare che questo non ha comunque a che vedere con presunte aree cerebrali non utilizzate. L'idea che ci siano “capacità intellettuali dormienti” può essere attraente per chi vorrebbe trovare un modo di metterle in moto (e magari per chi ha pensato di sfruttarla per vendere “metodi per imparare una lingua in poche settimane o manuali di self-help”), ma non ha fondamento.
Marcello Ticca parla di pregiudizi sull'alimentazione, come quello che dà il titolo al suo intervento (pp.280-283): “Il pesce fa bene alla memoria perché contiene fosforo”. Questa affermazione è priva di fondamento dato che non c'è nessun legame tra una maggiore assunzione di fosforo e un miglioramento della memoria, senza contare il fatto che “una carenza di fosforo da insufficiente apporto alimentare è quasi impossibile” e dosi supplementari non farebbero altro che finire espulse per via renale. Non è vero neppure che le vitamine della frutta sono concentrate nella buccia. Al contrario, i nutrienti “sono concentrati esclusivamente nella polpa […], mentre la buccia ne è praticamente priva”. L'autore individua quattro origini per i pregiudizi in campo alimentare: “1) nozioni un tempo valide ma poi superate dai progressi della ricerca scientifica, senza che il grande pubblico ne prendesse atto; 2) convinzioni ed esperienze personali poi trasformate in regole (l'atteggiamento più antiscientifico che si possa concepire) e molto diffuse perché atte a colpire la fantasia o perché abilmente presentate; 3) tesi e mode «moderne» messe in giro ad arte per promuovere un prodotto, un farmaco e una attività professionale; 4) credenze radicate nella tradizione popolare e proprio per questo erroneamente considerate vox populi vox dei”.
Il titolo dell’intervento di Massimo Montanari, “Nella carbonara la cipolla non ci va” (pp.37-40), fa riferimento allo “«scandalo francese» che ha fatto il giro del mondo sul web: una carbonara con pancetta e (horribile dictu) cipolla”. Montanari è del parere che sia “operazione di dubbia legittimità” pretendere che una ricetta debba essere immutabile. In fondo, fa notare (e l'osservazione non vale solo per le ricette), “«tradizione» non è che un'invenzione riuscita particolarmente bene”.

Silvia Bencivelli - Daniela Ovadia, E' la medicina, bellezza! : perché è difficile parlare di salute, Roma : Carocci, 2016
La medicina è una materia complessa e a rendere ancora più “difficile parlare di salute” (per citare il sottotitolo del libro) è il fatto che ci sono medici e ricercatori, magari anche con cattedra in un'università, che propongono affermazioni che sono in contrasto con fatti scientificamente accertati.
Silvia Bencivelli cita il caso di Peter Duesberg, autore di valide pubblicazioni sugli oncogeni, ma ancora più noto perché sostiene che l'aids non sia causato dal virus Hiv, nonostante ci siano prove decisive a sostegno di ciò che egli nega (pp.19-21). Un articolo sul tema firmato da Duesberg ed altri uscì nel 2011 sull'“Italian journal of anatomy and embriology”, rivista dell'Università di Firenze. Tra i coautori c'era Marco Ruggiero, docente di biologia molecolare in tale ateneo che sul tema aveva anche “tenuto corsi universitari (facoltativi)”. Il nome di Ruggiero è anche legato a uno “yogurt probiotico” che avrebbe un'azione “rinforzante del sistema immunitario”. La pubblicazione dell'articolo sollevò forti polemiche. Venne quindi istituita “una commissione d'inchiesta interna all'università per valutare le attività didattiche di Ruggiero” che, infine, viene invitato a dare le dimissioni (pp.21-27, 29-30).
Idee in contrasto con i dati scientifici, in medicina, possono diventare pericolose. Bencivelli ricorda il caso del Sudafrica dove, sotto la presidenza di Thabo Mbeki, venne accolta la tesi che nega che l'Hiv sia la causa dell'Aids. In base a ciò, si “favoleggiava di rimedi a base di erbe e di alimenti vegetali” e “preparati multivitaminici” e non si provvedeva, invece, alla distribuzione di farmaci antiretrovirali. L'autrice riporta una stima di 330.000 morti in più, tra il 2000 e il 2005, di quanti ce ne sarebbero stato con i medicinali adatti (pp.17-19). Un altro esempio di idee antiscientifiche che possono creare danni è quello dell'ideologia antivaccinista (pp.40-43).
Un capitolo del libro, scritto da Daniela Ovadia, è dedicato alla “salute nel piatto”. Uno dei libri sull'alimentazione che ha riscosso più successo in questi ultimi anni è The China study di T. Colin Campbell e Thomas M. Campbell. Il libro sostiene di potere dare, sulla base di studi fatti in Cina (da ciò il titolo), delle indicazioni per un'alimentazione salutare. Se alcune idee sono corrette e confermate da altri studi, il libro dei Campbell riporta anche affermazioni discutibili, come l'idea che il consumo anche in “piccolissime quantità di grassi e proteine animali (compresi i latticini, indicati come particolarmente pericolosi) porterebbe a un aumento notevole del rischio di ammalarsi, mentre tutti gli altri studi epidemiologici dicono che l'aumento del rischio è proporzionale al consumo e che quindi, in termini assoluti, mangiare proteine animali in quantità limitata non cambia il destino di un individuo” (p.71). Anzi, aggiunge Ovadia, “una quantità ragionevole di grassi di origine animale, latticini e soprattutto pesce è considerata da tutti non solo accettabile ma persino salutare” (p.72).
Nell'ottobre del 2015 lo Iarc (International agency for the research on cancer) annunciò che la carne rossa era stata inserita nel gruppo 2A (probabilmente cancerogena) e quella lavorata nel gruppo 1 (cancerogena). Alcune testate proposero articoli in cui si parlava di carni pericolose come il fumo, anch'esso inserito nel gruppo 1. Come spiega Ovadia, “si tratta di una interpretazione sbagliata” della classificazione dello Iarc: la carne lavorata (nel testo si legge “la carne rossa”, ma dal contesto si capisce che l'autrice sta parlando di quella lavorata) “è inserita nella stessa categoria del fumo perché per ambedue esistono prove scientifiche sufficienti a esprimersi con relativa certezza. Ma il fumo è un carcinogeno molto più potente degli insaccati, e lo è a dosi minori, per cui se ragionevolmente un piatto di salame di tanto in tanto non avrà influenza sulla salute, un paio di sigarette invece sì” (p.81 – sulla classificazione dello Iarc si veda anche quanto scrive Bencivelli alle pp.56-58 del libro).
Tra gli argomenti trattati nel libro ci sono anche alcuni test che, senza valide prove scientifiche a sostegno, pretendono di poter individuare le intolleranze alimentari.
Nel 1958 Reinhold Voll “ipotizzò che i cambiamenti elettrici a livello di specifiche zone della cute che corrispondono ai punti stimolati dall'agopuntura cinese potessero dare informazioni sul funzionamento degli organi corrispondenti secondo la tradizione medica cinese”. Diede così vita all'“elettroagopuntura secondo Voll” (EAV) (p.88). In realtà, sono infondate sia l'idea che i punti indicati dall'agopuntura abbiano una qualunque proprietà specifica sia quella “che misurando i potenziali elettrici a livello dei tessuti sia possibile trarre informazioni sul loro funzionamento” (p.88). Helmut Schimmel, allievo di Voll, ha preso le mosse dall'EAV per creare il Vega Test: “la macchina misura la variazione nella resistenza tra anodo e catodo, applicati sulla pelle, mentre il paziente tiene in mano delle ampolle contenente estratti delle sostanze alimentari da testare. Se in presenza di una determinata sostanza (mai a diretto contatto con il paziente ma contenuta in una ampollina di vetro) la resistenza cala oltre un certo valore soglia, il test è positivo e la persona viene invitata a eliminare l'alimento dalla dieta” (p.88). E' evidente che tale metodo non ha nulla di sceintifico ed è inconsistente quanto l'EAV.
Il libro ricorda che l'American Academy of Allergy Asthma and Immunology ha invitato a diffidare del Vega Test e di altri test per le allergie che non hanno a loro sostegno prove scientifiche come il Bryan Test, il test delle IgG, il test della forza muscolare e l'analisi del capello (pp.88-89).