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Le storie dei panda - 1
CANNE DI BAMBU'
di Cái Pí
disegno di Leda Lanzatella
(2004)
“Cái Pí! Cái Pí!”
Una voce mi chiamò mentre, da buon panda, sgranocchiavo canne di bambù.
Era Ga Dá. Con lui c’era Grande Cái Pí (da non confondere
con Cái Pí, cioè me).
“Cái Pí, hai visto questo foglio?” chiese Ga Dá.
Mi mise davanti agli occhi un documento un po’ sgualcito, con un timbro
non molto bene impresso sormontato da una firma sgangherata.
La voce concitata ed il volto preoccupato di Ga Dá mi dissero, prima
ancora di leggere una sola riga, che c’era qualche grana. E naturalmente
la si portava a me. Tra di noi non esistono posizioni gerarchiche definite,
ma quando c’è qualche problema – quasi mai, del resto –
si viene da me. E’ una specie di leadership naturale.
Districandomi tra errori di ortografia e anacoluti, gergo burocratese e slogan
demenziali, giunsi alla fine del foglio.
“Come sarebbe a dire che qui vogliono fare una Zona Economica Speciale
eliminando il Boschetto?” mi indignai.
Questo territorio era nostro da prima che facessimo i testimonial per il WWF,
da prima che inventassero la macchina a vapore, da prima che Marco Polo giungesse
in Asia, persino da prima di Mick Jagger e degli Stones. E sono certo che il
primo panda, quello che darwinianamente si differenziò da qualche arcaica
specie ursina, nacque qui nel Boschetto. Ed ora un certo Mo Pyang, uno che abitava
in città e che godeva di un’ottima reputazione presso gli imprenditori
e gli imbroglioni (scusate la ripetizione) di tutto il mondo voleva cancellare
la Culla dei Panda per impiantarci la sua fottuta Zona Economica Speciale.
“Difenderemo le nostre canne di bambù ad ogni costo!” esclamai.
“Sì” gridò Grande Cái Pí “ad ogni
costo!”
“Anche a costo della vita!” proclamò esaltato Ga Dá.
“Be’, adesso non esageriamo” dissi “Diciamo che ci sbatteremo
molto”.
Si decise così di andare da questo Mo Pyang e farlo ragionare con qualche
concetto chiaro e, se necessario, un paio di sganassoni.
Il primo atto di protesta fu quello di rimuovere i cartelli di divieto di accesso:
ehi, al limite lo diciamo noi se non si può entrare nel nostro bosco!
Ci dedicammo poi a qualche innocente atto di vandalismo ai danni di una jeep
e di alcune attrezzature marcate “Mo Pyang”. Infine, disegnammo
i baffi sui cartelloni pubblicitari. Perché noi panda, in fondo, siamo
dei goliardi.
Giunti al ponticello di canne di bambù, scorgemmo sull’altra riva
due uomini in uniforme che ci minacciavano con un fucile.
“Identificarsi!” ci intimarono.
Grande Cái Pí, scandendo bene le sillabe, elencò: “Ga
Dá, Cái Pí e Grande Cái Pí”.
“Cái Pí e Grande Cái Pí?” chiese uno
dei due.
“Sì” confermai “e scriva bene Grande, mi raccomando”.
Era già capitato, infatti, che, scrivendo male l’ideogramma, si
alterasse il suo nome.
L’anno scorso, quando l’agenzia di viaggi ci consegnò le
carte per il viaggio in Francia, il mio amico notò subito l’errore:
“Ma io mi chiamo Grande Cái Pí, non Videocassetta Cái
Pí!”. Comunque, per evitare all’impiegata dell’agenzia
una lavata di capo da parte del proprietario, lasciammo correre. Il Blockbuster
di Parigi ci prestò i film gratis.
Qualche mese dopo vincemmo un abbonamento al “Corriere del Panda”
ad un quiz radiofonico. Il dj doveva avere una zampa di gallina perché
ci arrivo intestato ai “signori Cái Pí, Ga Dá e Elevazione
a Potenza Cái Pí”. Anche qui non chiedemmo rettifiche. Tanto
il giornale arrivava lo stesso.
Nel terzo caso, invece, fummo costretti a farlo: Cái Pí e Pier
Cái Pí era una cazzata troppo grossa!
Ripensando a questo deplorevole episodio, precisai: “Soprattutto non confonda
‘Grande’ con ‘Pier’!”
“Ops...” fece lui aggiungendo due trattini, prima di passarlo all’altro
che lesse ad alta voce: “Cittadini Ga Dá, Cái Pí
e Levigatrice Cái Pí, vi dichiaro in arresto per atti di sovversione!”
I tipi cominciavano a seccarci. Grande Cái Pí, non trovando altro
nei paraggi, prese per una zampa un cervo di padre David che si abbeverava al
fiumiciattolo e lo scagliò contro il milite, colpendolo in pieno. Approfittando
dell’attimo di sorpresa dell’altro che, evidentemente, non si sarebbe
mai aspettato questa astuta mossa, afferrai per la coda una salamandra di padre
David che poltriva vicino alla riva e, a mia volta, la scagliai. Con un suono
simile a quello di uno straccio inzuppato buttato sul pavimento, il grosso anfibio
abbatté la seconda guardia.
“Ehi” sentimmo alle nostre spalle la voce di padre David “Avete
finito di lanciare la mia roba?”
Gli facemmo le nostre scuse spiegandogli la situazione. Il nostro amico missionario
riconobbe che salvare il boschetto di canne di bambù era una giusta e
nobile impresa e ci impartì la sua benedizione. Il salamandrone ed il
cervo, per quanto un po’ stralunati, furono lieti di aver dato il loro
contributo alla causa.
Arrivati al paese, incontrammo un altro posto di blocco. Due auto e sei uomini.
Non avendo a disposizione animali da lanciare, a meno di lanciarci tra di noi,
ci affidammo ai ben assestati manrovesci di Grande Cái Pí che
buttò giù come birilli quattro umani in pochi secondi. I due rimanenti
li stendemmo io e Ga Dá con dei calcioni ben assestati. Siamo dei duri,
noi panda.
Mentre i miei due compari legavano saldamente i soldatini, io trafficavo con
i fili dell’auto.
“Ehi, Cái Pí” disse Ga Dá sventolando un mazzo
di chiavi sottratto ai nostri prigionieri “Non c’è bisogno
di dannarsi coi fili: ecco qua le chiavi”.
“Be’, volevo fare come nei film americani” ammisi.
“Comunque” continuai osservando il groviglio di cavi su cui avevo
messo le mani “credo che dovremo prendere l’altra. Questa mi sa
che non partirà mai più”.
La nostra scorribanda doveva aver messo in allarme chi di dovere perché,
alle soglie della città, ci trovammo di fronte un intero battaglione
in assetto da guerra con tanto di mimetiche e generale imbecille berciante ordini
a gran voce.
“Qui non ci salvano neppure le sventole di Grande Cái Pí”
si preoccupò Ga Dá.
Le Guardie del Popolo si avvicinavano a passo di marcia. Poggiarono il ginocchio
a terra, l’occhio sul mirino del fucile. Dovevo escogitare qualcosa. E
alla svelta, perché il generale stava per dare l’ordine di sparare.
“Ga Dá, lanciati in un discorso filosofico!”
“Eh?” fece lui sorpreso.
“Il processo ermeneutico... Sbrigati!... La filosofia dell’esistenza...”
“Be’ ” cominciò lui “la filosofia dell’esistenza
io la vedo più che altro in tema di rapporto tra la forza del linguaggio
come intuizione e l’elaborazione concettuale della filosofia”.
Il generale fu colto di sorpresa, le Guardie si guardarono l’un l’altra,
incerte sul da farsi.
“Continua” gridai “Non lasciar loro il tempo di riprendersi!”
“Ecco, la portata ontologica dell’arte la intendo come momento di
un processo incompiuto...”
Le gambe del generale cominciarono a tremare. Le Guardie capirono che eravamo
un osso duro. Molto, molto duro.
“... oh, comunque è parte integrante, ripeto: in-te-gran-te, di
questo processo, eh...” precisò Ga Dá e qui molte Guardie
se la diedero a gambe.
Il generale, capendo che si metteva male, chiamò a raccolta le sue forze
e riuscì a gridare con voce strozzata: “Sparate!”
La maggior parte delle Guardie era ormai in stato catalettico, ma alcune furono
scosse quel tanto che bastava per puntare i fucili verso di noi.
“Poche palle, insomma: la storicità dell’esistenza è
un po’ una sintesi di passato e presente...”
I soldati che ancora presentavano sintomi vitali capirono che l’attimo
di silenzio in cui Ga Dá socchiuse gli occhi toccandosi il naso con l’indice,
come per aiutarsi a riflettere, era la loro ultima chance, ma prima che potessero
premere il grilletto, lui riprese:
“... e contemporaneamente una fusione di orizzonti diversi!”
Anche le Guardie più resistenti furono colte da secchezza delle fauci,
diarrea, rash, dispepsia, diplopia. Vedere doppio non aiuta certo a prendere
la mira, ma soprattutto l’apparente arrivo di un altro panda farneticante
gettò nel panico più completo anche i più duri tra i soldati.
I pochi colpi che partirono, prima che gli incauti rimasti stramazzassero al
suolo, finirono completamente fuori bersaglio. Tranne quello che centrò
le chiappe del generale, naturalmente.
“Comunque” proseguì Ga Dá convinto “l’approfondimento
dell’ermeneutica, a mio parere, è l’unico modo di risolvere
il conflitto tra la metafisica tradizionale e il tentativo di Heidegger di superarla...”
“Ok, basta così” lo bloccai “Non infieriamo sul nemico
vinto”.
Giungemmo così indisturbati al palazzo di Mo Pyang e, dopo esserci presentati
(siamo educati, noi panda), chiedemmo alla segretaria di indicarci il suo ufficio.
“Avete un appuntamento?” chiese lei.
“Io sì” sospirai, ricordando che dovevo andare dal dentista.
“Anch’io” disse Ga Dá, che la settimana seguente aveva
una visita oculistica.
“Io pure” chiuse Grande Cái Pí, che per il 30 aveva
fissato una sfida a lancio di figurine con un orso malese.
Armeggiò con un telefono pieno di tasti e di lucine.
“Ci sono i signori Ga Dá, Cái Pí e Grande Cái
Pí” annunciò lei.
Ci parve di udire un “Chi?” provenire dalla cornetta.
“Siamo qui per il Boschetto di canne di bambù” dissi io.
“Bene, li faccio salire subito” disse lei al telefono e poi, rivolta
a noi: “Il compagno imprenditore Mo Pyang è nell’ufficio
in fondo al corridoio a destra del terzo piano”.
Il compagno imprenditore? Ehi, ma eravamo capitati nel Palazzo degli Ossimori?
Un fastidioso piagnucolio proveniva da dietro una porta dai vetri smerigliati.
Mo Pyang si lamentava per le leggi che legavano le mani agli imprenditori: i
pavimenti dell’azienda dovevano essere lavati almeno una volta l’anno,
gli straordinari non pagati non potevano superare le nove ore al giorno, era
vietato tenere esplosivi nel locale caldaia... Come se non bastasse, un giornalista
straniero – i soliti ficcanaso – lo aveva accusato di gestire sotto
banco un commercio di armi.
Nel frattempo avevamo socchiuso la porta e le nostre simpaticissime facce, creando
un netto contrasto con la sua faccia di culo, facevano capolino dallo spiraglio
aperto. “I miei figli hanno pianto leggendo l’articolo di questo
bugiardo!” ci disse in lacrime, facendoci segno di venire avanti e di
sederci.
“Scusate il disordine” aggiunse spostando tre bombe a mano da una
delle sedie, mentre Ga Dá, avendo rivolto uno sguardo incuriosito ad
un mortaio in fondo alla stanza, quasi finì disteso incespicando in un
kalashnikov lasciato in mezzo al passo sul pavimento. Guardando con più
attenzione, notai che il vessillo rosso che avevo inizialmente scambiato per
una bandiera cinese aveva al centro la M dei McDonald.
“E poi” aggiunse con un singhiozzo “la vedete la scritta sulla
porta?”
Recitava: “Compagno Imprenditore del Popolo dott. prof. avv. ing. arch.
cav. Mo Pyang”. In effetti, faceva abbastanza tristezza questo sfoggio
kitsch di titoli acquistati con bustarelle e raccomandazioni.
“Non mi ricordo più cosa significa l’abbreviazione tra ing.
e arch.” spiegò “Voi lo sapete?”
Ga Dá si avvicinò per esaminarla, rischiando nuovamente di cadere
per colpa del kalashnikov, e risolse l’arcano: “Non è una
sillaba, è uno scarrafone spiaccicato”.
“Ecco perché nessuno riusciva a leggerlo!” disse Mo Pyang
sollevato.
“Sono gli svantaggi dell’uso degli ideogrammi” commentò
Ga Dá.
“E’ come con il nome di mio figlio” annuì Mo Pyang
“a volte capita che fanno male due trattini e sembra Mo Grande Pyang invece
di Mo Pierpyang”.
Ga Dá, tornando verso di noi, inciampò ancora nel kalashnikov
e, imprecando, aprì la finestra e lo gettò di sotto.
“Comunque, voi siete qui per le canne, giusto?” riprese, asciugandosi
i lacrimoni che gli rigavano ancora le gote.
“Esatto” dissi “Questa idea di distruggerle non ci garba!”
“Distruggerle? Chi ha parlato di distruggerle?” si stupì
lui.
“C’è anche il timbro dell’ufficio di polizia e la firma
dell’ispettore!” disse severo Grande Cái Pí mostrando
il foglio con l’intenzione di mettere in chiaro che non ci si poteva condire
su con quattro baggianate.
“Ah” finalmente un sorriso apparve sul suo volto “Quello è
per far finta di rispettare la legge che dice: niente canne! Ma poi...”
una risata.
Come? C’era una legge che imponeva di distruggere le canne di bambù?
Altro che sforzi per salvare i panda!
“E’ una legge assassina!” gridò Grande Cái Pí
battendo il pugno sul tavolo “Bisogna cambiarla!”
“Lo penso anch’io” concordò Mo Pyang un po’ intimorito
“ma, sapete, poi l’ONU ci viene a seccare... sapete i trattati,
quelle cose lì...”
L’ONU! Ma allora c’era una congiura mondiale contro i panda! Non
c’era da stupirsi se eravamo in via d’estinzione.
“Comunque, nel ripostiglio n.5 ci sono venti casse di canne per voi. Ecco
le chiavi”.
“Ehm... grazie” balbettammo. Forse questo Mo Pyang non era poi stronzo
come sembrava (perché, quanto a sembrarlo, lo sembrava moltissimo).
“E per il foglio dell’ufficio di polizia?” chiesi io, assalito
improvvisamente dal dubbio che il regalo non fosse che un diversivo per farci
dimenticare la questione del Boschetto.
“Se è per questo...” disse lui afferrando la cornetta del
telefono e componendo un numero.
“Ciao, senti, verranno da te tre miei amici, i signori...” ci guardò
facendoci segno col dito.
“Ga Dá, Grande Cái Pí e Cái Pí”
dissi.
“...Ga Dá, Grande Cái Pí e Cái Pí”
ripetè Mo Pyang “Sono preoccupati per un foglio che hai firmato...”
“Numero 13765 d” precisai.
“...numero 13765 d...” disse lui “diglielo anche tu che non
se ne fa niente”.
“Ma lei...” cercò di obiettare l’ispettore.
“Niente ma” ribadì Mo Pyang “Tutto nullo!”
“Va... va bene” biascicò lui e Mo Pyang riappese.
“E’ stato un piacere” disse a noi stringendoci le zampe.
Prima di andarcene, facemmo un dono alla segretaria: un prezioso vaso Ming.
Siamo generosi, noi panda. Lei restò senza fiato: “Grazie! Che
figurone farà nel mio salotto!”.
“Anche nei nostri” confermammo mostrandole quelli che avevamo preso
per noi.
E, in fondo, non stavano malissimo nemmeno le bottiglie di acqua minerale che
avevamo messo al loro posto sul mobile nell’anticamera dell’ufficio
di Mo Pyang. Facevano pop art.
Nell’uscire dal Palazzo incrociammo un losco figuro che entrava. Già
era brutto di suo ed in più aveva un enorme bernoccolone, come se gli
fosse caduto in testa un kalashnikov buttato da una finestra del terzo piano.
Qualche giorno dopo, mentre ci godevano il fresco del nostro boschetto di bambù
salvato dall’avidità del liberismo cinese, leggemmo la seguente
notizia sul “Corriere del Panda”:
“Il noto imprenditore Mo Pyang è stato trovato ieri pomeriggio
legato come un salame alla sua sedia girevole la quale a sua volta era legata
al lampadario. Da tre giorni si udivano mugugni lamentosi incessanti provenire
dal suo ufficio, ma, a detta della sua segretaria, ciò non differiva
poi molto dalla normale indole lagnosa del suo capo. Pare si tratti di un avvertimento
in risposta ad uno sgarbo fatto a due trafficanti di marijuana cui non era stata
consegnata merce già pagata. Ciò confermerebbe le voci su un coinvolgimento
di Mo Pyang in un giro di armi e droga”.
E dire che, alla fine, ci era quasi sembrato una persona ammodo. Anche se un
po’ strano. Basti pensare alle casse che ci aveva regalato. Altro che
bambù! Erano venute su delle erbacce con foglie con cinque punte strette.
Nemmeno i cervi di padre David osavano mangiarle. Così, le avevamo strappate
tutte e, una volta che eravamo scesi giù al villaggio, le avevamo gettate
su un falò dei contadini.
EPILOGO
Dal “Corriere del Panda”.
Un intero villaggio dà i numeri.
Che ci sia qualche persona un po’ strana, è scontato. Ma che un
intero villaggio si comporti in maniera assurda in preda ad un’inspiegabile
euforia è un fatto insolito. E’ quanto è successo in un
villaggio contadino della Cina sud-occidentale posto vicino ad un boschetto
abitato da panda, salamandre giganti e cervi sì bù xiàng
e dal missionario basco padre Armand David. Le ragioni di questo comportamento
sono ancora un mistero.
Dal diario di Fo Gang.
“Caro diario, è da tanto che non ti scrivo, ma sai, quel puzzone
di Mo Pyang mi ha fatto proprio arrabbiare. Vado a ritirare la roba –
già pagata, eh!!! – e mi arriva un kalashnikov in testa. Lì
per lì ho pensato: gli sarà caduto, può capitare. Entro
e gli dico ok dov’è la merce? Ma l’hai già ritirata!
dice lui e io: ma che cavolo dici? e lui: ma sì, sei venuto qui poco
fa coi tuoi due amici. Ehi, gli dico, non mi prendere per il culo! Guarda che
se dici un’altra cazzata ti appendo al lampadario legato come un salame!
E lui: Ma perché vi siete travestiti da panda?”