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Le storie dei panda - 4
LA DISFIDA DEGLI AUTORI
di Cái Pí
disegno di Leda Lanzatella
(2005)

Di tanto in tanto facciamo qualche passeggiata fino al burrone. In genere non troviamo nessuno. Al limite un cervo di padre David che va a godersi il panorama. O una salamandra di padre David che si è smarrita e ci tocca riportarla al ruscello. O un ombrello di padre David, che è un grande naturalista, ma a volte si dimentica anche la testa. Stavolta c’era un uomo e non era il nostro amico missionario.
“Salve” esordii “lei è un confratello di padre David?”
“E chimminchia è chisto patre Davidde?” ci chiese a sua volta.
“David, non Davidde” lo corresse Ga Dá “padre Armand David, il missionario naturalista”.
“E chisto viene a dire che non sugnu iu il primo omo a acchianare acchì!” commentò con una smorfia di disappunto.
“Ma questo parla come Nino Frassica!” mi bisbigliò all’orecchio Grande Cái Pí. Il tipo doveva avere un buon udito. Aveva sentito l’inconfutabile constatazione e, inspiegabilmente, sembrava esserne rimasto sconvolto.
“Ninu Frassica? Niiinuuu Fraassiicaaa???”
Si coprì il volto con le mani scuotendo la testa affranto.
“Ninu Frassica sta minchia” disse infine “Sono un personaggio del granni Andrea Camilleri, lo scrittori chiù amato dalla crìttica e dal pubblico taliani. Mi chiamo Calazio Provolone... che il mi vero nome è Michè, che viene a dire Michele, ma tutti mi hanno simpri chiamato Calazio”.
“Perché?” chiese Grande Cái Pí.
“E chemminchia ne so? Spialo a Camilleri” disse lui “E voi chi sie... ma no… aspetta... v’haju racconosciuti! Sissi: i famosi tre panna! Il chiù picciliddro è Cái Pí, il chiù granni è Granni Cái Pí, il chiù medio è Ga Dá”.
Forse non era poi scemo come sembrava (perché, quanto a sembrarlo, lo sembrava tantissimo).
“Panna starebbe per panda?” s’informò Grande Cái Pí.
“Sissi” rispose, ma continuò senza correggersi “I panna che dicono: li nostre facce accussì beddre facevano contrasto con la faccia sò de culu”.
“Nel senso di: le nostre facce così simpatiche facevano un netto contrasto con la sua faccia di culo?” tradusse Ga Dá, facendo così comparire la frase anche in questo episodio.
“Sissi, esattamente. Sapiti chi vi dico? Che le storie dei panna sono belle squasi quanto quelle di Montalbano!” disse.
Contestammo in modo educato, ma fermo, la sua affermazione facendo notare che le storie dei panda sono molto più belle di quelle di Montalbano (e non è che lo diciamo perché siamo noi i protagonisti). La cosa era, peraltro, talmente evidente che non ci sembrava valesse la pena di perdere tempo nel dimostrarlo. Eravamo piuttosto curiosi di sapere cosa mai ci facesse un imitatore di Nino Frassica in questi impervi luoghi, dove la presenza umana, a parte padre David, non è certo molto frequente. Così cambiammo argomento e glielo chiedemmo.
“Che fazzu? Tiro su la mi roba! Un peso! Taliate!” disse facendo segno col dito.
“Non ci pare il caso...” replicammo un po’ perplessi.
“Taliate, taliate!” continuò lui.
“Non ci sembra una buona idea” cercammo di convincerlo, ma sembrava irremovibile.
“Taliate o m’incazzo un tanticchia!” cominciò ad inquietarsi.
Visto che proprio insisteva, estraemmo i nostri coltellini multiuso e tagliammo di netto le corde che trattenevano i suoi bagagli. Le valigie precipitarono di sotto rimbalzando su qualche spuntone di roccia e disseminando qua e là il loro contenuto.
Lui diventò bianco e cominciò: “O san Calò! O san Campagnolo! O san Gisuè! Cadì tutto a catafottersi nello sbalanco! Pirchì lo ficisti?“
Ci guardammo un po’ sorpresi.
“Ce l’hai detto tu di tagliare!” dissi.
“E hai anche detto che se non lo facevamo t’incazzavi un tanticchia” precisò Grande Cái Pí.
“Nonsi, nonsi” disse Calazio agitato “Taliare, che viene a dire usare gli occhi, non il curteddru”.
“Tagliare con gli occhi?” si stupì Grande Cái Pí .
“Nonsi, nonsi” si spazientì senza alcuna ragione, mettendosi le mani un palmo davanti agli occhi ed osservandole.
Sospettai per un attimo che fosse dedito alla chiromanzia, ma presto capii (siamo acuti, noi panda) che stava mimando l’azione di uno che guarda qualcosa.
“Ah, guardare!” dissi traducendo in italiano il suo curioso gergo “E allora di’ guardare, non tagliare!”
Attirato dal rumore della roba di Calazio che si catafotteva nello sbalanco, giunse un cervo di padre David che osservò piuttosto perplesso la scena. Notando le corde tagliate e i coltellini che ancora avevamo in mano, intuì quel che era successo e ci squadrò con aria interrogativa.
“Ce l’ha detto lui di farlo” disse prontamente Grande Cái Pí a scanso di equivoci.
“Anche se forse intendeva dire un’altra cosa” buttò là Ga Dá.
“Comunque non è mica colpa nostra se uno non si sa spiegare” precisai io.
“E chi spici di cervo è chista?” disse Calazio interrompendo di botto le nostre spiegazioni ed i suoi lamenti. Fissava il simpatico volto del nostro compaesano e gli era tornato di colpo il colorito naturale. Sembrava, anzi, abbastanza allegro.
“Mi sa che è una spici noveddra. Gli do il mi nome e sugnu famoso: Cervus provolonis, il cervo di Provolone”.
Fece persino un saltino di gioia.
“No, no” intervenni “questo è un cervo di padre David”.
Elaphurus davidianus” aggiunse Ga Dá citando il nome scientifico dell’animale.
“Ancora chisto patre Davidde!” borbottò lui battendo il pugno destro sul palmo della mano sinistra.
“David, non Davidde” sbuffò Grande Cái Pí sentendo nuovamente storpiare il cognome del nostro amico missionario.
“E ch’haju detto?” replicò Calazio “Davidde”.
“Va be’, lasciamo perdere” si arrese Grande Cái Pí.
Intanto Calazio si era avvicinato con cautela all’orlo del dirupo per guardar giù in direzione dei suoi bagagli. Lo informammo che c’era un sentiero che dal Boschetto portava laggiù e si poteva quindi scendere a riprendere la sua roba (o, sarebbe meglio dire, quel che ne era rimasto dopo quel volo).
Prima, se lo desiderava, poteva venire da noi a prendere un buon tè di bambù. Accettò l’invito e ci incamminammo nel Boschetto.
Ad un certo punto, Calazio sembrò illuminarsi e si fermò di colpo.
“Un momentu” disse facendoci segno con la mano di fermarci anche noi.
Estrasse dalla tasca una bustina e me la porse. Lessi la scritta: “Caffè liofilizzato”.
“Caffè con panna” disse lui indicandoci e si sganasciò dalle risate.
“Sapiti” disse quando si fu ripreso “una battuta esilarante ci vole nei libra di Camilleri”.
“A parte che questo non è un libro di Camilleri, ma una storia dei panda...” cominciò Ga Dá.
“A parte che siamo panda e non panna...” precisai io.
“La battuta, in ogni caso, non è per niente esilarante” concluse Grande Cái Pí.
“Come?” s’innervosì Calazio “Doviti sapiri che sono un personaggio di Camilleri e i so libra sono i chiù spiritosi del munnu!”
L’affermazione era chiaramente falsa. E’ noto, infatti, che i libri più spiritosi del mondo sono le storie dei panda (e, anche in questo caso, sia chiaro, non è che lo diciamo perché siamo noi i protagonisti). Glielo facemmo notare e lui si adombrò.
“Accussì si offende il mi autore” proclamò Calazio “Devo difendere l’anuri”.
Non capimmo il legame tra le due proposizioni, ma apprezzammo che Calazio volesse intraprendere una battaglia a favore di simpatici animaletti come le rane e i rospi.
“L’intento è lodevole” dissi “Però, a dire il vero, qui di anuri non ce ne sono”.
“Gli unici anfibi che vivono da queste parti sono urodeli” aggiunse Ga Dá, indicando i salamandroni che, poco più in là, si godevano il fresco del ruscello.
Calazio seguì con lo sguardo la direzione del dito del nostro amico filosofo e restò a bocca aperta.
“San Camilluzzo! Santo Girlando!” esclamò quando si fu ripreso dallo stupore “Non vitti mai armàli come chisti. Sugnu famoso. Ci ho già il nome pronto per loro: Megalobatrachus calatii, il batrace gigante di Calazio!”
Alzammo la mano facendo segno di no con il dito.
“Non mi diti chi macari chisti sono già canosciuti” bofonchiò Calazio sconfortato.
Andrias davidianus” disse Ga Dá.
“Salamandre di padre David” continuai io.
“Chisto patre Davidde sta principiando a scassarrimi la minchia” borbottò il naturalista siculo.
Perdonammo l’espressione irriverente considerando che, in fondo, era un’implicita ammissione della superiorità del nostro amico missionario.
Mentre avanzavamo lungo il sentiero, ci raccontò che era sicuro di aver scoperto una nuova specie di ominide che, da un verso che emetteva di frequente, aveva chiamato Homo miconsenta. I baroni dell’università, però, sempre pronti a boicottare le sue ricerche, avevano detto che, nonostante le apparenze potessero ingannare, non era altro che un esemplare di Homo sapiens sapiens.
“Ma di sapiens non aveva proprio nulla!” ribadì Calazio con convinzione.
In tema di ominidi, ci chiese se avevamo mai visto uno yeti.
Ci era capitato qualche volta, mentre facevamo delle passeggiate sulle nevi dell’Himalaya che un alpinista puntasse il dito nella nostra direzione gridando “Tre yeti! Tre yeti!”. Ci eravamo guardati intorno, ma non ne avevamo visto neppure uno. L’aria rarefatta, si sa, gioca brutti scherzi agli umani.
“Doviti sapiri che lo yeti è canosciuto macari con un altro nome: mi-teh” disse Calazio con un sorriso da saputello che si compiace della sua cultura.
“E anche dzuteh” aggiunse Ga Dá “o anche nayalme, oppure rimi, o raksi…”
Calazio sgranò gli occhi sorpreso.
“… qualcuno lo chiama mirged, altri gangs-mi…” proseguiva il nostro colto amico, mentre il naturalista siciliano, ripresosi dallo stupore, cercava di annotare le denominazioni della leggendaria creatura che Ga Dá snocciolava con disinvoltura.
“… oppure mi-ghen-po, oppure kang mi, o anche tshemo…”
Quest’ultimo nome ci ricordò un curioso episodio capitatoci tempo addietro. Un tizio, prima di superare una cresta, aveva lanciato oltre il suo zainetto che era finito sulla testa di Grande Cái Pí.
“Ahia” aveva detto il mio amico e il tipo, balzato oltre la roccia, aveva esclamato: “Tshemo!”, causando un equivoco.
“Scemo sarai tu che mi tiri lo zaino in testa” aveva replicato un po’ seccato Grande Cái Pí e con uno spintone lo aveva spedito qualche metro più in là.
Eravamo quasi giunti a destinazione, quando Calazio ci fece nuovamente fermare. Il suo sogghigno ci faceva temere che aveva in mente un’altra facezia. Gli chiedemmo la ragione di questa nuova pausa, ma lui ci fece solo segno di attendere e intanto ridacchiava. Estrasse da un taschino il bloc-notes e la matita, si sedette su un sasso e schizzò velocemente un disegno che ci consegnò appena l’ebbe finito.
“E’ na seppia” ci spiegò non riuscendo a trattenere qualche accenno di riso.
“Allora le hanno strappato due tentacoli” commentò Ga Dá, sempre preciso, notando che le lineette che dovevano rappresentarli erano otto invece di dieci.
Dopo un attimo di perplessità Calazio capì quel che il nostro amico intendeva e, sbuffando, aggiunse due righette. Quindi tornò a sorridere.
“Ossi” disse lui indicandoci e muovendo poi l’indice in direzione del disegno aggiunse “di seppia! Ossi di seppia! Come le poesie di Squasimodo. Un’altra esilarante battuta” e proruppe in una fragorosa risata che restò, però, solitaria e si spense quando vide che lo guardavamo con aria non troppo convinta.
“A parte che siamo più o meno orsi, ma non certo ossi...” premisi.
“A parte che è Quasimodo e non Squasimodo...” proseguì Grande Cái Pí.
“E perché ‘di’ seppia? Al limite ‘con’ seppia...” aggiunse Ga Dá.
“E poi gli Ossi di seppia non sono di Quasimodo!” ripresi.
“Non saranno macari chisti di patre Davidde?” sbottò Calazio.
“Sono di Montale!” disse, un po’ spazientito, Ga Dá.
Per nostra fortuna, nel tempo che ci volle per arrivare a destinazione, Calazio non riuscì ad inventare altre battute.
“Ti va bene un’amaca?” chiesi a Calazio.
“Una…?” replicò lui.
“Un’amaca” ripetei indicandone una, mentre Ga Dá dava una dimostrazione pratica sdraiandosi su un’altra.
Calazio vi salì in modo un po’ goffo e pochi istanti dopo era già sprofondato nel sonno. Pensammo che avrebbe gradito, al risveglio, ritrovare i suoi bagagli e così ci avviammo verso il sentiero che porta alla valle con una rete per raccoglierli.
Mentre scendevamo canticchiando parodie di note canzoni (in fondo siamo dei goliardi, noi panda), ci imbattemmo in un tizio che, sbuffando sotto il peso di un voluminoso zaino, arrancava su per la salita. Se già un solo visitatore quassù rappresentava un fatto insolito, incontrarne un altro nello stesso giorno era davvero sorprendente.
Lo salutammo e lui rispose con un inconfondibile accento.
“Lei è un amico di Calazio?” domandai.
“E chimminchia è chisto Calazio?” chiese a sua volta il tipo con lo zaino.
“Il naturalista Provolone” spiegò Ga Dá “Si chiama Michele, ma tutti lo chiamano Calazio”.
“E pirchì?” chiese ancora lui.
“Non lo sa nemmeno lui” rispose Grande Cái Pí “Forse lo sa Camilleri, visto che Calazio è un suo personaggio”.
“Che fortuna!” esclamò il nostro interlocutore “Certo sapiti che i libra di Camilleri sono i chiù beddri che ci sono in giro”.
Per amore della verità, gli facemmo notare che in realtà i libri più belli in circolazione sono le storie dei panda (e, repetita iuvant, non è che lo diciamo perché siamo noi i protagonisti). Nelle nostre brillanti menti, intanto, si era insinuato un dubbio. Tornammo quindi sui nostri passi, accompagnati dal nostro secondo ospite. Calazio nel frattempo si era svegliato e accolse calorosamente il suo compaesano.
“Vidiri qualcuno della nostra Sicilia è squasi beddro quanto leggere un libro di Camilleri” gridò quest’ultimo abbracciandolo.
Ormai il dubbio si era tramutato in certezza: Andrea Camilleri stava cercando di colonizzare le nostre storie con alcuni suoi personaggi per fare pubblicità ai suoi libri.
La sfida era lanciata e noi panda, si sa, non ci tiriamo indietro.
“Vai, Ga Dá” dissi al nostro amico filosofo sollevando il “pollice” (in realtà il “pollice” del panda non è propriamente un pollice, bensì un prolungamento del carpo, ma non mi dilungo per non interrompere la narrazione).
“Commissario, che ne pensa di questo omicidio?” chiese un agente.
“Mah” rispose Montalbano “potrebbe essere stato schiacciato dalla forza del linguaggio come intuizione o non aver retto la portata ontologica dell’arte che, sarà anche solo un momento di un processo incompiuto, ma comunque ne è parte integrante”.
“Ah... sì, certo...” borbottò stupito l’agente “Ma, da dove cominciamo le indagini?”
“Mi sa che dobbiamo approfondire l’ermeneutica” suggerì Montalbano “Chissà mai che non venga fuori qualche indizio sul tentativo di Heidegger di superare la metafisica tradizionale”.
L’agente lo guardò con gli occhi sgranati: “Ma, commissario, chemminchia sta dicendo?”
Montalbano era ancora più sorpreso del collega: “Non lo so nemmeno io, mi sembra che nessuna sintesi di passato e presente dia storicità alla mia esistenza”.
“Presto chiamate un medico” gridò l’agente “Il commissario sta delirando”.
Montalbano si rivolse all’agente: “Fate presto perché sto per fare un riassunto della Critica della ragion pura di Kant...”.
“Be’, amici, bravi, ma non crederete che mi faccia paura Kant” intervenne Camilleri fingendo nonchalance, ma si capiva che era un po’ spaventato.
“... al quale seguirà” proseguì il commissario “una discussione approfondita della Fenomenologia dello spirito di Hegel...”
“No! Mi arrendo! Ritiro subito dalla vostra storia Calazio e l’altro scemo. Vi faccio anche una donazione per il vostro museo” cedette Camilleri quasi in lacrime “ma Hegel no, vi prego!”
Grande Cái Pí suggellò la vittoria con un sagace aforismo: “Kant che ti pass, Hegel che non ti pass più”.

Epilogo

Dal “Corriere del Panda”.
Un Natale particolare in casa di Andrea Camilleri, l’autore dei noti libri che hanno per protagonista il commissario Montalbano. “Ho donato ad un museo il mio prezioso presepe siciliano, opera di artigiani della nostra isola” ci dice lo scrittore. Le artistiche statuine sono state rimpiazzate da personaggi creati decorando opportunamente bottigliette di acqua minerale. “Fanno pop art” dice lo scrittore.