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STUDI DELLA BIBLIOTECA COMUNALE DI PARE’
1 (2003), pp.21-30
GIORGIO CASTIGLIONI
DON GRAZIANO PORLEZZA DA DREZZO, CACCIATORE DI ERETICI
Una figura singolare tra i preti del XIX secolo della diocesi di Como è quella di don Graziano Porlezza, nativo di Drezzo, per una trentina d’anni a Colico dapprima come vicario e poi come prevosto, quindi per quasi vent’anni parroco di Camnago.
A DREZZO
Fioravanti Graziano Porlezza nacque a Drezzo il 18 dicembre 1821 da Giuseppe,
drezzese, e da Maria Taiana, sposatisi a Camnago il primo gennaio di quell’anno.
I coniugi Porlezza diedero in seguito altri due preti alla Chiesa, Giuseppe
e Carlo [1].
Secondo la testimonianza di Giuseppe Butti, parroco di Drezzo dal 1823 al 1882,
Graziano avrebbe “dimostrata fin dalla fanciullezza” la “special
sua vocazione per la via ecclesiastica”. Già da bambino, infatti
si segnalava per la sua serietà, disdegnando gli svaghi prediletti dai
ragazzi [2].
Frequentò con profitto l’Imperial Regio Liceo di Como. Nel 1840
ottenne, nel primo semestre, la valutazione di “Prima con eminenza”,
il massimo dei voti, in tre materie su cinque (scienza della religione, filosofia,
storia naturale) e di “Prima” nelle altre due (matematica pura elementare,
filologia latina). Nel secondo semestre ebbe “Prima con eminenza”
in tutte e cinque. Nel primo semestre del 1841, ricevette “Prima con eminenza”
in scienza della religione, filosofia e filologia latina e “Prima”
in fisica e storia universale. Nel secondo semestre, confermò il voto
più alto nelle tre materie in cui già lo aveva e lo raggiunse
anche in fisica. Solo in storia universale non conquistò l’“eminenza”,
mantenendo comunque la “Prima”. In tutti i semestri fu indicato
come “molto diligente” in tutte le materie e la sua condotta risultò
sempre “distintamente conforme” [3].
Qualche preoccupazione fu destata da un suo difetto di pronuncia, ma Graziano
assicurava che “insieme collo sviluppo della mia età, più
sciolta, e meno balbuziente, va facendosi pur anco la mia lingua”. Il
vescovo Carlo Romanò gli chiese di provare “nelle vie regolari
d’aver perduto il difetto che lo esclude dalla carriera Ecclesiastica”.
Il medico e chirurgo condotto Giuseppe De Gregori garantì per lui:
Dichiaro io sottoscritto che la balbuzie del Sig.r Graziano Porlezza del vivente Giuseppe studente di filosofia è molto scemata dall’anno scorso a quest’epoca e non riscontrandosi in oltre alcun vizio di conformazione della lingua del medesimo, ritengo la balbuzie cagionata nel nostro caso unicamente da cattiva abitudine contratta, la quale come dissi si trova già molto corretta in confronto degli anni scorsi, ed avvi tutta la possibilità che abbia a svanire interamente col tratto successivo.
Anche un medico dell’Istituto Fatebenefratelli, esaminato Porlezza “per la viziatura accusata della loquela”, valutò che “tale viziatura non è ancora in grado tale da dirsi Balbuties, ma semplice haesitatio, la quale potrebbe a maggiore ragione essere superata la mercé alcuni mezzi di cura che gli vennero proposti” [4].
VICARIO E PREVOSTO A COLICO
All’inizio del 1846, il coadiutore di Colico Francesco Noseda divenne
parroco di Piantedo. La nomina del coadiutore spettava alla deputazione comunale
ed al prevosto di Colico, che era allora Giuseppe Garbagnati. La loro scelta
(12 febbraio 1846) cadde su Graziano Porlezza. Il beneficio conferitogli gli
sarebbe servito anche come titolo per l’ordinazione [5].
Celebrò la prima messa nel settembre del 1846 nella chiesa parrocchiale
di Cavallasca e per l’occasione il già citato parroco di Drezzo
Giuseppe Butti, che si dilettava di poesia, gli dedicò un sonetto che
si concludeva con i versi:
Tu il puoi Graziano, offri all’Eterno un pegno
Per cui tu sii de’ miseri mortali
Verace guida, e di salvezza legno. [6]
Il 21 settembre il vescovo Carlo Romanò riconobbe la nomina e due giorni
giunse il placet del governo. Restò vicario di Colico fino all’11
agosto del 1851, quando divenne prevosto della stessa parrocchia [7].
Nei suoi anni in quel paese, Graziano Porlezza mostrò un carattere alquanto
focoso.
Ne è un esempio la questione sorta intorno al fondo detto “Baronia”.
Alla fine del 1852, Porlezza scrisse al commissario distrettuale di Bellano
facendo notare che nel 1827 c’erano stati due atti di vendita livellaria
nello stesso giorno con i quali il fondo era passato dalla prebenda parrocchiale
ad un tale Luigi Sacco e poi da questi ad Antonia Garbagnati, sorella dell’allora
prevosto Giuseppe Garbagnati, immediato predecessore di Porlezza. “E perché
due documenti in un giorno solo se non vi fosse stata meditata una truffa in
pregiudizio della Prebenda?” si chiedeva il prevosto che chiamava in causa
anche il subeconomo Lattuada, il quale “conscio di tutta la trama [...]
tenta incutere timore a chi ne vuole immaginarne l’andamento”.
Per il subeconomo la protesta del prevosto era “calunniosa” e priva
di fondamento: semmai, al prevosto Garbagnati si poteva rimproverare “la
naturale sua incuria” per non aver fatto cancellare il fondo dalle partite
prebendali [8].
IN LITE CON I VICARI
Nel settembre del 1859, Porlezza scriveva al vescovo che, ammalatosi di “febbre
endemica (intermittente)”, non riceveva alcun aiuto dal coadiutore Luigi
Mattei. Il parroco affermava che Mattei gli aveva detto di non volersi occupare
di lui per timore di “esporsi a qualche pericolo cagionevole della sua
salute”, consigliandogli di chiamare ad assisterlo un religioso (“provveda
un fratoccio a sue spese”, sarebbero state le testuali parole). Il parroco
imputava, inoltre, al vicario comportamenti mondani, come la frequentazione
dei caffè e la caccia. I contadini, a dire di Porlezza, ogni volta che
sentivano un colpo di fucile sparato da Mattei commentavano: “ecco
due soldi tolti ad un affamato”. Mattei aveva tacciato Porlezza di
essere stato “motivo di rovina de’ suoi anteced[ent]i Vicarj”,
accusa che il parroco rifiutava sostenendo che, al contrario, la “necessaria
correzione” talora data aveva fatto sì che tutti fossero “promossi
con lode” [9].
Nel settembre del 1863, Porlezza si lamentava con il vescovo di Ferrario che,
a suo giudizio, non combinava nulla di buono, andava dicendo che era colpa del
parroco se doveva lasciare Colico per Piona e “non cessa d’attentar
vie onde disporre sinistramente la popolazione verso di me, ed anche compromettermi
innanzi al Potere Giudiziario”. In particolare, Porlezza, venuto a sapere
di essere stato denunciato per quel che aveva detto “sul luogo in cui
s’insegnava da’ Valdesi le dominanti massime eretiche”, aveva
pensato che a farlo fosse stato il “conduttore del pubblico esercizio
(lupanare)”. Aveva però scoperto che, invece, l’autore della
denuncia era proprio Ferrario.
Diversa, naturalmente, era la versione del vicario. Era Porlezza, affermava,
a perseguitarlo e a diffondere calunnie contro di lui. Ferrario assicurava di
non essersi mai sottratto ai suoi doveri, se non quando era ammalato, il che,
non mancava di aggiungere, poteva anche capitare con quel che il parroco gli
faceva passare, “e vorrei mi dicesse in qual festa [...] mi sono sottratto
a quelle [funzioni] per passare il tempo nel caffè”. D’altra
parte, aggiungeva, non poteva “supporsi ch’io abbia da esser gonzo
a tal segno” da farsi cogliere così palesemente in fallo sapendo
di essere sotto il controllo di un parroco che era come “quella belva
tutta piena di occhi di cui parla la Scrittura” [10],
“sempre scagliante idrofobia”, “sempre cannibale verso il
suo clero”.
In curia, comunque, si era deciso di porre fine agli attriti spostando Ferrario
a Piona [11].
Nacque una contestazione anche sul giorno in cui il coadiutore avrebbe cessato
il suo servizio (e quindi avrebbe dovuto essere pagato). Porlezza sosteneva
che Ferrario aveva terminato il suo incarico il 31 ottobre, anche se “quantunque
diffidato di non assistere più alle funzioni – ché nulla
più gli competeva – volle intervenirvi”.
Il vicario, invece, precisava che la lettera della curia che gli chiedeva di
riconsegnare la sua cartella di coadiutore, datata 30 ottobre, era stata da
lui ricevuta solo l’1 novembre (il vicario foraneo confermò di
avergliela consegnata in tale data) e non indicava un termine entro il quale
soddisfare la richiesta fattagli. Avendo egli rinunciato al beneficio l’8
novembre con decorrenza dall’11, riteneva di dover essere pagato sino
a quella data, nonostante ciò che poteva dire “quel serpente
tortuoso, che personifica l’ignoranza e la menzogna” [12].
GLI ERETICI A COLICO
Il 3 agosto 1863, Giovanni Pini, prevosto di Domaso e vicario foraneo, informava
la curia che Porlezza gli aveva scritto che un ministro protestante aveva predicato
all’osteria di Leopoldo Scalcini. Per contrastare “i loro sermoni
sovvertitori”, gli si rispondeva, il parroco avrebbe dovuto convincere
i fedeli a non frequentare quell’osteria.
Porlezza, comunque, era già pronto alla battaglia, come mostrano con
evidenza due lettere da lui inviate al vescovo il 3 ed il 4 agosto. L’arrivo
dei due predicatori protestanti (“i due apostoli di satan”) era
definito “la maggior delle sventure che io m’abbia avuto in questa
terra” e l’oste Scalcini, con il quale già c’erano
stati scontri, era presentato come il “noto manitengolo del libertinaggio”
[13]. Il parroco aveva parlato del fatto con i fratelli Achille
e Carlo Polti, di Dongo, proprietari dell’edificio dove Scalcini teneva
la sua osteria e Carlo, che era sindaco di Colico, gli aveva assicurato che,
se le cose non fossero cambiate, l’oste non avrebbe più avuto in
affitto quei locali. Non solo: se le autorità civili non si fossero mostrate
sufficientemente solerti nel combattere “la micidiale serpe dell’eresia”,
Porlezza prendeva addirittura in considerazione l’ipotesi “di promovere
un subbuglio popolare”.
Un certo Michele Ghisla scriveva al prevosto di Domaso, ridimensionando la vicenda.
Effettivamente, un venditore di bibbie anglicano aveva tenuto un discorso davanti
a sei o sette persone, ma il pericolo non era certo così grande come
lo dipingeva il parroco. Lo scrivente aveva provato a chiedere ai presenti cosa
avesse detto, ma “non seppero spiegarmi cosa udirono, tant’era eloquente
e logico”. Più preoccupante, a suo giudizio, era il comportamento
di Porlezza, che bollava i suoi parrocchiani, brava gente, come diavoli e “senza
misericordia condanna all’Inferno tutti questi abitanti come tanti atei
perché non scacciano il coadiutore” e minacciava di farlo lui con
l’aiuto dei confratelli della compagnia del Sacramento. “Insomma
ci ha tutti scomunicati, o ci scomunicherà” concludeva l’autore
della lettera.
Il prevosto di Domaso era della stessa idea. In una lettera al vescovo, sosteneva
che Porlezza “spinge all’eccesso il suo zelo” e, visto che
il parroco non lo ascoltava, suggeriva al vescovo di intervenire lui e “volergli
direttamente ingiungere di temperare colla prudenza lo zelo, onde non abbia
a trovarsi compromesso in faccia della legge civile”.
Anche al vescovo parve necessario calmare i bollenti spiriti di Porlezza. “Ella
è in tale stato di animo” gli scriveva “da mal conciliarsi
colla prudenza sempre doveroso in un parroco. Lo zelo vuol essere secondo scienza
e non isbrigliato a talento di passione”. Il vescovo, poi, gli vietava
nel modo più assoluto di “eccitare il popolo ad atti di violenza”
e di “farsi condottiere della Confraternita allo scopo di dimostrazioni
contro i venditori di libri e di dottrine eretiche”. Inoltre, Porlezza
doveva smetterla con “il vezzo di mandare all’inferno tutta la popolazione
in fascio” [14].
CARLO PORLEZZA
In seguito, Graziano Porlezza ebbe come coadiutore anche il fratello Carlo,
che ebbe l’istituzione canonica per la vicaria di Colico il 23 dicembre
1873, due anni dopo che il suo predecessore, Carlo Bolis, divenuto parroco di
Piantedo, aveva lasciato la vicaria. Il placet governativo fu concesso
nel maggio del 1874 [15].
Raggiunse quindi il fratello a Colico lasciando Cedrasco, dove aveva svolto
per nove anni le mansioni di economo spirituale (ovvero incaricato della gestione
della parrocchia vacante in attesa della nomina del nuovo parroco – inutile
aggiungere che il caso di una parrocchia gestita per nove anni da un economo
spirituale è decisamente anomalo) [16] e dove qualcuno
non lo amava troppo, a giudicare da una lettera che commentava con un “grazie
al cielo” la sua partenza, accusandolo di celebrare le funzioni “in
qualche modo” (oltre che parlando in modo incomprensibile “per difetto
della lingua”) ed in orari scelti in base agli inviti a pranzo che riceveva,
di aver aumentato le tariffe per i funerali e di avere una tresca con una donna
del paese con la quale continuava a vedersi, a Colico e a Cedrasco, anche dopo
il trasferimento. L’arciprete di Berbenno, in qualità di vicario
foraneo, intervenne però in sua difesa, dichiarando non affidabili i
suoi accusatori: era vero che Carlo Porlezza aveva rapporti privilegiati con
una famiglia del luogo, ma non c’erano episodi scandalosi da deplorare.
In particolare, la donna in questione era “una grave matrona [...] cui
il Porlezza non poteva certo avvicinare che qual seconda madre” [17].
Nel 1876, Carlo presentò il suo nome per l’elezione del parroco
di Santa Maria di Nullate (oggi San Fermo della Battaglia). Circolarono anche
voci di “brighe” architettate per farlo vincere, tanto che il fratello
Giuseppe scrisse una lettera per smentirle e chiese che fosse letta durante
le procedure per l’elezione per tutelarne la reputazione. Se tentativi
di “brighe” vi furono, comunque, non ebbero un grande effetto: Carlo
ebbe dai capifamiglia ed estimati del luogo, cui spettava l’elezione del
parroco, solo 29 voti favorevoli, mentre quelli contrari furono 74 [18].
Ebbe invece successo l’anno seguente a Sacco, dove raccolse 63 voti favorevoli
e soli 2 contrari, superando nettamente l’altro aspirante alla carica
di parroco di quel luogo che ebbe 14 sì e 51 no [19].
Nel 1888, Carlo Porlezza divenne prevosto di Uggiate, dove restò sino
alla morte [20].
TEODOLINDA FONTANINI
Se la lite del prevosto di Colico con il suo vicario Giuseppe Ferrario ebbe
toni alquanto aspri, quella con una donna di Colico, Teodolinda Fontanini, finì
addirittura in tribunale.
Già da qualche tempo c’era della ruggine tra i due. Quando, poi,
la mattina dell’11 febbraio del 1867, Teodolinda, introdottasi nella casa
parrocchiale mentre Porlezza era assente (stava celebrando la messa), prese
a bastonate la madre del prevosto, scattò la denuncia.
Graziano Porlezza, in una lettera scritta in quello stesso giorno al sindaco
di Colico, così ricostruiva l’accaduto, evidentemente sulla base
di quanto gli aveva raccontato la madre:
Questa mattina, alle ore 7 – e precisamente nel tempo che lo scrivente trovavasi in Colico-piano a celebrar Messa, entrò in casa parrocchiale certa Fontanini Teodolinda fu Gio[vanni] B[attist]a armata di robusto nodoso bastone di legno rubino [ovvero di robinia], ed entrata nella stanza ove la di lui madre Maria Tajana Porlezza giaceva coricata a letto, ne fece sì brutale uso con replicati colpi sulla testa sui bracci che la rese assaissimo malconcia ed orribilmente spaventata.
Per buona sorte alle grida della paziente accorsero i vicini, altrimenti la sciagurata Fontanini colle espressioni = voglio finirla con questa famiglia = mentre ne facea scempio – parea intenzionata di consumare un omicidio di già intentato. [21]
Teodolinda fuggì, ma più tardi, mentre si trovava presso la
casa dello zio Andrea Fontanini, che gli aveva offerto una stanza, fu arrestata
dai carabinieri con l’accusa di violazione di domicilio e tentato omicidio
e portata alla pretura di Bellano, dove fu tenuta sotto custodia [22].
Il verbale dell’arresto contiene anche una descrizione sommaria dell’imputata:
alta circa un metro e sessanta, capelli castani, viso ovale, occhi chiari [23].
Il giorno seguente, ebbe luogo l’interrogatorio dell’imputata. La
Fontanini affermò di aver subito in passato dei torti. Secondo la sua
deposizione, all’incirca due anni prima il parroco le aveva chiesto di
svolgere qualche lavoro per lui, ma “siccome mi faceva lavorare troppo,
e poco mi dava da mangiare, così dopo due o tre giorni non volli più
andarvi”. In seguito, però, prestò la sua opera ancora in
qualche occasione, per un totale di una trentina di giorni che Porlezza non
le aveva mai pagato. Teodolinda sosteneva anche che il parroco più volte
aveva cercato di allungare le mani su di lei, “senza però fare
violenza” e “senza però che io mai accondiscendessi”.
Anche quando era tornata per farsi pagare le giornate di lavoro “in alcune
di tali circostanza mi ebbe a tentare per favorirlo. Non sò poi se pei
rifiuti a lui fatti o per qualche altro motivo, fatto stà che già
da tempo che quel Parroco mi toglie a tribulare”.
“Non volendo più soportare le di lui vessazioni”, la Fontanini
si era trasferita a Delebio e, quando il parroco le aveva chiesto di tornare
a Colico, aveva risposto che lo avrebbe fatto se le avesse trovato una casa,
ciò che Porlezza le avrebbe promesso. Si arrivò così alla
mattina del fattaccio. Teodolinda non negò di aver bastonato la madre
del prevosto, ma volle precisare di non averla assalita mentre era ancora a
letto, bensì mentre “stava vestendosi”, e affermò
di essere stata provocata:
Essa mi domandò chi fossi poiché non mi conosceva e datogli a mia contezza, persistesse nel dire che non mi conosceva e ciò forse per non pagarmi. Io allora gli risposi se mi conosceva soltanto quando lavoravo e da ciò nacque fra noi due diverbio e quella donna mi diede della sciavata, della ballossona ed io a lei della porcona. In ciò dicendo avendo veduto nell’entrare un bastone fuori dalla porta andai a prenderlo e collo stesso mi diedi per percuoterla, ma essa fu lesta ad afferrarlo colle mani ma ad onta di ciò devo averla battuta in una spalla e siccome gridava io le lasciai in mano il bastone e mi diedi a fuggire
La Fontanini negava dunque che l’attacco fosse premeditato. Il bastone,
lo aveva trovato sul posto e lo aveva usato solo in seguito alla risposta sgarbata
ricevuta e solo “perché arrabiata pel modo con cui sempre mi tratta
tanto lei che il Parroco ogni qual volta mi presento alle loro case, il qual’ultimo
anche mi scaccia sempre di malo modo”. Le fu anche mostrato il bastone
preso dai carabinieri come corpo del reato e Teodolinda lo riconobbe come quello
da lei usato [24].
Il sindaco di Colico, in merito alla vicenda, dichiarava che il resoconto di
Graziano Porlezza era “appoggiato a’ fatti che meritano la più
ampia fede” e che non poteva dire con certezza quale fosse il movente,
“ma si ha a supporre che dipenda pel licenziamento del servizio che già
da tempo si aveva nella casa di questo R.° Sig. Parroco” [25].
Il 14 fu chiamato alla pretura di Bellano il prevosto. Dalla sua deposizioni
emersero altri fatti a carico di Teodolinda. Nel febbraio del 1866, ricordava
Porlezza, la Fontanini gli aveva chiesto i documenti necessari per trasferire
il domicilio da Colico a Delebio, dove di fatto abitava già da un paio
di anni. Il prevosto le preparò un certificato di nascita e la mandò
per le pratiche all’ufficio comunale dove, però, il sindaco non
volle esaudire la richiesta. Tornò allora “con parole piene di
acrimonia” da Porlezza chiedendogli “Carte, che secondo il suo modo
d’opinare consistevano in voluminoso fascicolo, e forse nel trasporto
dello stesso Registro Parrocchiale sul quale il di lei nome era inscritto”.
Tre giorni dopo, Teodolinda tornò alla carica.
Alle irragionevoli pretese, alle arroganti ed olimpiche espressioni della sciagurata il Parroco avrebbe dovuto scacciarla da casa anche co’ mezzi coattivi, col bastone, cioè, e con percosse sufficienti all’uopo; ma al simultaneo riflesso che tali estremi ripieghi disdicono al carattere Sacerdotale – ha creduto bene ritirarsi per brev’istante, lasciando sola la Fontanini.
Teodolinda ne approfittò per afferrare “quel Registro de’
Nati (in idioma latino) [26] sul quale era inscritto il suo
nome, e svignarsi da casa col corpo del delitto”, portandolo con sé
a Delebio. Il suo padrone di casa, seppellitore comunale del paese, essendo
“uomo onesto e conscienzioso, venuto in cognizione del furto fellonesco
della sua inquilina Le impose la immediata restituzione del Libro, sotto comminatoria
dell’espulsione da casa. Un tale precetto produsse mirabili effetti ed
il Libro comparve in casa parrocchiale”. Ma Teodolinda, “che sapeva
fingere a talento ed osservare ove nascondevasi la chiave dell’archivio”,
trafugò altri registri. Il parroco si rivolse allora al sindaco di Colico
che impose la restituzione, eseguita, a detta del parroco, solo parzialmente:
“devesi notiziare ognora l’ammanco di due Registri Civili uno de’
Nati, altro de’ Matrimonj” e di alcuni cartoni usati per la rilegatura.
Porlezza aggiungeva che Teodolinda aveva cercato di rubargli anche un ombrello,
riavuto grazie all’intervento del seppellitore e del segretario comunale
di Delebio.
In seguito, continuava a deporre il parroco, la Fontanini, espulsa da Delebio,
pretendeva da lui una casa e “frattanto voleva fermarsi come inserviente,
al quale oggetto esclusivo, e non altrimenti, avea fatta la restituzione de’
registri”. Teodolinda di fatto fu ospitata per quattro o cinque giorni
in casa parrocchiale, incontrando la madre del parroco che la trattò
“con urbanità e con qualche commiserazione” e che non avrebbe
più rivisto sino alla mattina delle bastonate. Cosa, dunque, poteva aver
scatenato l’ira di Teodolinda? “Forse la Fontanini intendeva rimovere
con brutale modo la madre del Parroco per fermarsi come inserviente?”
si chiedeva Graziano Porlezza “Forse avea dato ascolto ad un sogno?”,
come poteva sembrare dall’esclamazione “tu mi hai schiacciato la
testa sta notte” che la donna avrebbe proferito mentre colpiva con il
bastone, aggiungendo che era “tempo di finirla con questa famiglia”.
Di una cosa il parroco si diceva certo: chi aveva commesso tale “orribile
scempio” della sua povera madre non poteva che essere profondamente malvagia.
Anche le tigri, le pantere, le iene scannano gli uomini, ma nol fanno se non nell’impeto del furore, e mosse dalla fame; ma la Fontanini il fece per ragionamento, per calcolo, senza che la vittima le abbia fatta offesa di sorta, anzi mentre ella la conosce dormiente coricata a letto, innocente; ed il fa nel modo il più brutale e fellonesco, qual è quello di valersi del tradimento. – Perfin tra i nemici, solo che non siano cannibali, si usa nell’impugnarsi qualche specie di lealtà; ma la lealtà è ignota alla iniqua Fontanini. [27]
Come notò anche la Camera di consiglio del Tribunale civile e correzionale
di Como [28], sin qui non era ancora stata ascoltata la madre
del parroco, Maria Taiana. Il 18 febbraio giunse il suo turno.
La Taiana confermò quanto era stato riferito dal figlio in merito ai
fatti dell’11 febbraio, affermando di essere stata colpita alla testa,
alle braccia e al ginocchio destro e di aver perso “sangue dall’orecchio
sinistro alla sua parte esterna”. I dolori provocati dall’aggressione
le avevano impedito di svolgere le normali attività e per tre o quattro
giorni aveva avuto la febbre. Ancora in quel momento la testa e le braccia erano
bendate. Negò di avere offeso Teodolinda, da lei conosciuta con il diminutivo
Linda, e che, per quanto lei ne sapesse, avesse mai lavorato per il figlio e
potesse dunque avanzare pretese. Aggiunse che la gente di Colico diceva della
Fontanini che “non vuol lavorare”. Riconobbe il bastone mostratogli
come corpo del reato e che riteneva fosse stato preso dalla legna depositata
nel cortile della casa parrocchiale [29].
Appurato che la madre del parroco aveva subito delle percosse (Teodolinda stessa
lo aveva ammesso), restava da valutarne l’entità.
Il giorno stesso dell’aggressione, il medico condotto di Colico aveva
steso una relazione nella quale si leggeva:
Aveva questa pochi minuti prima riportato delle lesioni di natura contuse in numero di quattro, una al cubito destro altre due al braccio sinistro, e la quarta al capo, in corrispondenza del parietale destro.
Tali lesioni che furono prodotte da colpi di bastone, sono ha [sic] considerarsi per le loro conseguenze leggiere, poiche la durata del male non riempirà i cinque giorni, ammeno che non sopragiungano impreveduti accidenti. [30]
La pretura di Bellano convocò il medico condotto del paese invitandolo
ad effettuare una nuova perizia che fu aggiunta alla deposizione della Taiana.
Il medico riscontrò “una macchia giallognola di figura irregolare
del diametro approssimativo di un pollice” alla regione temporale destra,
una simile macchia dal gomito destro a metà dell’avambraccio, quattro
piccole escoriazioni sul braccio sinistro che la parte lesa muoveva con difficoltà
e sentendo dolore. Al ginocchio destro ed all’orecchio sinistro, la madre
del parroco accusava dolori, ma non si vedevano più “alterazioni
materiali”, così come non c’era più traccia di febbre.
Mostratogli il bastone sequestrato, il medico ritenne verosimile che le lesioni
esaminate, alcune con lacerazione ed altre senza, potessero essere state inferte
con quello, dato “che su di un lato è regolare e quindi semplicemente
contundente, su l’altro lato è fornito di gruppi acuti ed atti
a lacerare”. Tutte le lesioni erano ritenute ormai prossime alla guarigione,
fatta eccezione per quella al gomito che avrebbe richiesto all’incirca
un’altra settimana. La valutazione complessiva era che “non sono
né furono pericolose alla vita, e guaribili senza permanenti conseguenze”
[31].
Risolta la questione dell’aggressione, si volle approfondire quella della
sottrazione dei registri.
Graziano Porlezza fu nuovamente chiamato a deporre il 18 ed il 27 febbraio [32].
Il parroco ribadì che Teodolinda aveva rubato più registri e che
due di questi non erano stati ancora resi.
Secondo la sua ricostruzione, il 12 febbraio del 1866 le aveva fatto un certificato
di nascita per il trasferimento a Delebio. Non avendo ottenuto le altre carte
necessarie dal sindaco, era tornata dal parroco per chiedere un “carteggio
voluminoso” che, per Porlezza, significava probabilmente il registro stesso.
Il 16, il parroco si accorse che mancava dall’archivio il registro ecclesiastico
dei battesimi degli anni 1814-1846. Immaginando che fosse stato rubato da Teodolinda
andò a Delebio e si offrì di trovarle un’abitazione se lo
restituiva. La Fontanini continuò a presentarsi alla casa parrocchiale
e il parroco non trovava il modo di liberarsene “finché in una
mattina trovatala sulla porta le diedi uno spintone chiudendola di fuori, al
qual procedere d’essa mi appellò col titolo di Giudè”.
Il 22 marzo, il parroco si rivolse al sindaco che intimò a Teodolinda
di riportare il registro. La mattina dopo, Porlezza lo riebbe, anche se “tutto
guasto per l’umidità”. Il 29 marzo, il parroco, avendo bisogno
del registro dei matrimoni degli anni 1842-1865, lo cercò invano in archivio.
Il 18 aprile si accorse che mancavano altri cinque registri, trafugati, probabilmente
“in diverse riprese, astutamente e clandestinamente, approfittandosi d’una
mia inavvertenza nel tener chiuso l’archivio”. Una mattina, “in
una casa rustica ad uso legnaja vi trovai appoggiata sopra a della legna una
foderetta in cui si continevano N. 4 registri dei Nati fatti a rottolo senza
cartone”. Inoltre, nel “Registro dei nati ove vi era scritto il
cognome Fontanini, quà e là vi era stato tagliato fuori”
e nella fodera il parroco trovò anche questi ritagli “levati verosimilmente
colla Forbice, verosimilmente per togliere il proprio nome”. Mancavano
ancora due registri, quello civile dei nati dal 1816 al 1825 e quello civile
dei matrimoni dal 1842 al 1865.
Anche in queste due deposizioni, il parroco non dimenticò di segnalare
il tentato furto dell’ombrello. Per quanto riguardava Teodolinda, il parroco
riferiva, come già aveva fatto sua madre, che in paese la Fontanini era
“ritenuta per donna di nessuna voglia di lavorare” [33]
e raccontò che la famiglia Fontanini era un tempo “piuttosto agiata,
ma avendo avuto un padre scialaquatore e che finì a vivere di cattoneggio
– la Teodolinda si dovette mettere a vivere sulla giornata, osservando
che per la sua poca voglia di lavorare a stento trovava qualche giornata or
quà or là, limitandosi a vivere dallo scarso ricavo della filatura
di canape ed altro”.
Il 28 febbraio venne interrogata l’imputata. La Fontanini ammise di aver
trafugato i registri:
Portai via in fatti dei Registri Parrochiali al Parroco Porlezza. Il primo che portai via avenne quando venni a Colico per trasportare il domicilio a Delebio, e siccome il sindaco non volle farmi le carte relative solo in base alla fede di nascita che mi fece il Porlezza io insistetti per vedere i registri, e quel parroco me ne portò abbasso uno in latino che pose sul tavolo dello studio e siccome riteneva che mi riguardasse, colto il momento che si era apartato presi quel libro
Teodolinda nascose il registro in un boschetto fino a quando, dietro ordine
del sindaco, lo riportò al parroco. Riconobbe anche di aver rubato in
seguito altri registri (disse che le pareva fossero tre), mettendoli in una
fodera anch’essa sottratta dalla casa parrocchiale. Affermava, però,
di averli riportati tutti, negando di averne ancora due, come sosteneva Porlezza,
e diceva di non sapere nulla dei cartoni di rilegatura di cui il parroco aveva
segnalato la scomparsa. “Li portai via” continuava la Fontanini
“per vedere l’anno di mia nascita, ma su quei registri non trovai
ne il mio nome e cognome paternità ricordando anzi che colla forbice
tagliaj uno di quei registri in tre o quattro luoghi perché indispettita
[...] di non aver trovato quanto cercavo”. Per quanto riguardava l’altro
capo d’accusa, Teodolinda ribadì che la madre del parroco non si
trovava a letto, ma era già alzata, quando subì le bastonate.
Nel verbale si annotava che le risposte erano state ottenute “non senza
qualche difficoltà” [34].
Liquidata la faccenda dell’ombrello, per la quale “non concorrono
estremi di reato”, restava da decidere sul furto dei registri e sulle
percosse alla madre del prevosto [35].
Nella sentenza del 13 maggio 1867, si ritenne che “per le deposizioni
del Parroco Sacerdote Porlezza e per le parziali ammissioni della Fontanini
risulta stabilito il fatto in genere della sottrazione, trafugamento e danneggiamento
di alcuni registri parrocchiali” e “in quanto al secondo capo d’imputazione
che per la denuncia medica, per le dichiarazioni dell’offesa e pei giudizi
peritali sulla medesima assunti risulta in genere stabilito il fatto di ferimento
volontario avvenuto in danno di Maria Tajana”. A Teodolinda furono riconosciute
delle attenuanti: il furto dei registri non era valutato di grande entità
e, per quanto riguardava le percosse alla Taiana, si teneva conto della “natura
non grave delle lesioni” e dello “stato di mente piuttosto debole
della Fontanini”. Teodolinda fu condannata a tre mesi di reclusione per
il furto e ad un altro per le percosse, per un totale di quattro mesi a decorrere
dall’11 febbraio, data del suo arresto, oltre al pagamento di spese processuali
e danni [36].
DA COLICO A CAMNAGO
Già nel 1862, a Graziano Porlezza era stata offerta l’opportunità
di lasciare Colico e trasferirsi più vicino al suo paese natio. Era stato
infatti nominato vicario di Gaggino. Il sacerdote drezzese, però, non
accettò l’incarico perché non prevedeva l’assegnazione
di un’abitazione e comprendeva l’obbligo di far la scuola per i
ragazzi, onere che egli valutava “incompatibile colla precaria mia salute”
[37].
Nel 1875, si candidò per Casanova Lanza, ma non fu il prescelto [38].
Due anni più tardi, comunque, Graziano fu nominato parroco di Camnago
(pieve di Uggiate) [39].
In una lettera al subeconomo nel dicembre del 1877, Porlezza così scriveva:
“In seguito a 32. anni di cordiale convivenza con 2900 = poscia 2200 =
anime – sembra un’ingratitudine lo spontaneo inaspettato mio ritiro,
ed io pure ebbi la debolezza per qualche tempo di non saper resistere agli impulsi
del cuore; – poiché anche coloro da me supposti oppositori furon
i primi a condolersi”.
In un altra lettera non datata, scritta comunque quando era già parroco
di Camnago e diretta anch’essa al subeconomo, ricordava però gli
“urti” in occasione dello smembramento di una parte del territorio
della parrocchia, il fatto che dalla scuola comunale era “proscritto il
Catechismo”, la circolazione di “alcuni tema [sic] ed aforismi odiosi
alla Santa Sede” [40].
Restava da risolvere la questione dei registri parrocchiali. Infatti, nei dieci
anni passati tra la sentenza contro la Fontanini e la partenza di Porlezza,
né la prima aveva reso i due registri ancora mancanti, né il secondo
aveva provveduto a rimpiazzarli, limitandosi a scrivere, prima di lasciare Colico,
una dichiarazione in cui ricordava la vicenda della sottrazione dei libri. Anzi,
il sacerdote drezzese creò ulteriore confusione con l’aver “erroneamente
affardellati nel trasporto mobilio” altri tre registri, che fece prontamente
tornare a Colico. L’Economato generale dei benefici vacanti, in una lettera
al subeconomo, giudicò che “pure ammettendo l’avvenuto furto
il Parroco sia tenuto a procurarsi a sue spese una copia dei registri stessi”.
Porlezza, da parte sua, propose al subeconomo di chiedere una licenza all’Economato
Generale perché “in via di graziosa ed eccezionale venia = si possa
supplire con un Sunto o Rubrica”. Fu solo nel giugno del 1879 che il suo
successore, Francesco Sala, poté annunciare al subeconomo che “finalmente
il Parroco Porlezza Don Graziano restituì a questo archivio Parrochiale
i due registri civili mancanti [...] mediante due estratti debitamente collazionati
dalla nostra Venerabile Curia Vescovile” [41].
Anche a Camnago ci fu chi non lo vedeva troppo di buon occhio. L’autore
di una lettera datata “Dal Bosco” 18 luglio 1886 si mostrava decisamente
seccato dal “poco concertato concerto” delle campane della chiesa
anche ad ora tarda, “peggiore dei clamori di qualche ubbriaco passante”
e recante fastidio anche “alla distanza di chilometri” [42].
Il 16 novembre 1889, Porlezza fu debilitato da un colpo apoplettico. La mano
risultò indebolita al punto che, non riuscendo più a frangere
l’ostia con i soli pollice ed indice, dovette chiedere una dispensa per
potersi aiutare con le altre dita [43].
Il 29 settembre del 1895 morì di “sincope”. Nel necrologio
pubblicato sul quotidiano cattolico comasco “L’Ordine” si
legge: “Resse la difficile prevostura di Colico trentun’anni, tenne
fermo superando gravi difficoltà, contro i Valdesi che vi volevano impiantare
l’eresia loro e vinse” [44].
NOTE:
[1] ARCHIVIO STORICO DELLA DIOCESI
DI COMO (ASDC), Ordinazioni, 1856, D, Tonsura e ordini minori;
1857, A, Esorcisti e accoliti; 1857, A, Suddiaconi; 1857,
B, Diaconi; 1858, A, Presbiteri. Ivi, 1862, D, Tonsura;
1863, A, Ostiari e lettori; 1863, A, Esorcisti e accoliti;
1864, A, Suddiaconi; 1865, B, Presbiteri.
[2] Ivi, 1842, D, Tonsura
e ordini minori.
[3] Ivi, 1842, D, Tonsura
e ordini minori.
[4] Ivi, 1842, D, Tonsura
e ordini minori.
[5] ARCHIVIO DI STATO DI COMO
(ASCo), Subeconomato dei benefici vacanti, 33, Colico San Bernardino.
[6] ARCHIVIO PARROCCHIALE DI DREZZO,
Titolo III, Giuseppe Butti, fotocopie.
[7] ASCo, Subeconomato dei
benefici vacanti, 33, Colico San Bernardino.
[8] Ivi.
[9] ASDC, Titolo VII,
1859.
[10] Parrebbe un riferimento
a Ap 4, 6. 8 (“intorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni
d’occhi davanti e di dietro”, “intorno e dentro sono costellati
di occhi”), che peraltro, nel contesto, potrebbe suonare un po’
blasfemo.
[11] ASDC, Titolo VII,
1863.
[12] ASCo, Subeconomato dei
benefici vacanti, 33, Colico San Bernardino.
[13] Già qualche anno
prima, nel 1858, il vicario di Colico, Antonio Romanò, aveva segnalato
al vicario generale che all’osteria di Leopoldo Scalcini, detto Poldo,
abitava una prostituta e che altre passavano di lì. ASDC, Titolo
VII, 1858.
[14] ASDC, Titolo VII,
1863.
[15] Ivi.
[16] ASDC, Istituzioni canoniche,
Sacco.
[17] ASDC, Titolo VII,
1874.
[18] ASDC, Istituzioni canoniche,
San Fermo della Battaglia. Cfr il mio articolo Le elezioni dei parroci nella
pieve di Zezio, in “Studi della Biblioteca Comunale di Moltrasio”,
3 (2003), p.6.
[19] ASDC, Istituzioni canoniche,
Sacco.
[20] ASDC, Istituzioni canoniche,
Uggiate.
[21] ASCo, Tribunale di Como,
Fascicoli penali, 100/1867, n.3.
[22] Ivi, nn.6, 4.
[23] Ivi, n.6.
[24] Ivi, n.5.
[25] Ivi, nn. 8 e 9.
[26] Con l’indicazione
della lingua in cui veniva compilato, si distinguevano i registri ecclesiastici,
scritti in latino, da quelli civili (ma anch’essi tenuti dal parroco e
conservati nell’archivio parrocchiale), scritti in italiano.
[27] Ivi, n.10.
[28] Ivi, n.7.
[29] Ivi, n.12.
[30] Ivi, n.2.
[31] Ivi, n.12.
[32] Ivi, nn.13, 16.
[33] Anche il sindaco di Colico
testimoniava che Teodolinda “non ha voglia alcuna di dedicarsi al lavoro”
(ivi, n.15).
[34] Ivi, n.17.
[35] Ivi, n.14.
[36] Ivi, sentenza. La sentenza
è anche in ASCo, Tribunale di Como, Sentenze penali,
9, 1867, n.86.
[37] ASDC, Istituzioni canoniche,
Gaggino.
[38] Tra i concorrenti c’era
anche il fratello Carlo (non vinse neppure lui). ASDC, Istituzioni canoniche,
Casanova Lanza.
[39] ASDC, Istituzioni canoniche,
Camnago (pieve di Uggiate); ASCo, Subeconomato dei benefici vacanti,
99 bis, Camnago d’Uggiate.
[40] ASCo, Subeconomato dei
benefici vacanti, 33, Colico San Bernardino.
[41] Ivi.
[42] ARCHIVIO PARROCCHIALE DI
CAMNAGO FALOPPIO (APCf), fasc. “Documenti storici vari”.
[43] APCf, Titolo VII.
[44] “L’Ordine”,
30 settembre 1895, pp.2-3.