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STUDI DELLA BIBLIOTECA COMUNALE DI PARE'
1 (2003), pp.7-11

IVO MANCINI

LA FAMIGLIA ROSSINI: MISERIA E NOBILTA' DEI "CONTI" DI PARE'

La famiglia Rossini [1], legata agli Odescalchi da vincoli parentali, è attestata presente nella zona già dal Cinquecento, precisamente a Novazzano, il nostro interesse è però legata alle alterne vicende della dinastia tra la seconda metà del Settecento e la prima dell’Ottocento, periodo nel quale i Rossini raggiunsero una posizione di grande prestigio nel salotto buono della città per poi vedere inesorabilmente in pochi decenni la dissoluzione del loro patrimonio.
Anzitutto dobbiamo introdurre la persona del Conte Carlo Rossini Bononi, l’uomo più importante di Paré ed anche di Drezzo nella seconda metà del Settecento. Egli, che deteneva la proprietà di numerosi immobili nei due paesi, e ne era dunque il maggior estimato, fu protagonista di due singolari episodi che raccontiamo: l’infeudazione del territorio di Paré e quello, ancor più curioso, della vicenda della campana.
Così raccontano le carte datate 1768: “Rimangono da due anni gli abitanti del Comune di Paré Pieve d’Uggiate Comasco in molta angustia per massime nei giorni festivi e nelle fonzioni feriali atteso trovansi con una campana del peso di soli rubbi 27 ed un'altra del peso di rubbi sedici in questo tempo del tutto rotta e la maggior parte in modo che de’ cassinaggi non ponno discernere il segno della messa, ed altre sagre funzioni cui alle volte, non le ponno udire posto non giongono in tempo di assistere al sagrificio si perché la maggiore non ha voce sufficiente di giungere alle abitazioni distanti più d’un miglio, di cui è dispersa questa comunità” [2].
Nei secoli in cui pochi chilometri erano percorribili solo a fatica, in cui solo le stagioni ed il raccolto scandivano il tempo, in cui la messa domenicale era il momento più solenne della settimana ordinaria, i rintocchi della campana rivestivano un significato non solo religioso ma anche civile; si può ben capire come l’impossibilità di sentirne il suono fosse quasi una condanna a vivere al di fuori del tempo. Inoltre la struttura del territorio di Paré era una composizione di cassinaggi (La Valle, Oreghello, Rossée, Lora, Bernaschina) distanti tra loro e lontani dal centro paese, zona che potremmo immaginare compresa tra la chiesa, la Curt Granda ed il palazzo Odescalchi.
Il problema si trascinò per alcuni anni finché la questione si intrecciò con la pratica di infeudazione del territorio: il conte Rossini di Bononi, maggior estimato del paese, si rese disponibile a provvedere all’acquisto della campana ed alla riparazione del campanile nel caso in cui la comunità avesse messo una buona parola per lui, che voleva acquistare il titolo nobiliare. Le cose andarono però per le lunghe, con buona pace del conte e dei paesani. Del resto anche Paré si era riscattata dall’infeudazione del 1652 a proprie spese.
Ma l’urgenza di riparare la campana col passare del tempo era sempre più stringente. Solo cinque anni dopo, in una fredda serata di novembre, i capi di famiglia si recarono “nel portico avanti alla Casa dell’Ill. Sig. Conte Rossini luogo destinato atteso il tempo dirotto in pioggia […] volendo gli abitanti anche coll’assenso de’ Deputati dell’Estimo dimostrare al predetto Sig. Conte Rossini la singolare stima, che di esso hanno massime che si dichiara di pagare il prezzo della Redenzione del Regio Demanio, trovandosi questa Chiesa un urgentissima necessità della rifusione della campana da più anni rotta, e di accrescerne altra più grossa per dar il comodo alle diverse cassine, che compongono questa Comunità che non ponno in oggi sentire i segni per le Sacre Funzioni d’ordine delli stessi comunisti”.
I capi famiglia di Paré si riunirono ancora due anni più tardi “nella Piazza solita sita all’Ingresso della Porta del Piazzale della Parrocchiale di S. Giovanni Battista ove soglionsi congregare per gli affari comunali” per mettere la cosa ai voti definitivamente: procedettero dunque alla “bussolazione votiva segreta”, cioè al voto segreto contrassegnato da palline da inserire nella bussola rossa per i fautori dell’infeudazione, in quella bianca per gli oppositori “venne distribuita una palla per cialchedun vocale incominciando dalli Sigg. Deputati dell’Estimo ed abitanti secondo ordine del loro intervento e che di mano in mano venivano da me Cancelliere chiamati, e terminata la votazione in presenza di tutto il convocato gente sono state numerate nel bussolotto rosso palle cinquantatre, palle due nel bussolotto bianco … Quindi unanimi li vocali supplicano il Regio Deputato Milanese e le Intelligenze Competenti di conferire e dare in Feudo all’Ill. Carlo Rossini de Bononi e di approvarlo per Feudatario della loro Comunità obbligando li medesimi di riconoscerlo in vero Feudatario, con ogni onore.
E di approvare lo sborso delle lire 721. 3. soldi 3. denari, prezzo della ragione del Demanio possa essere ricevuto dalla Comunità, e convertirlo nella rifusione della campana, e nelle altre necessità espresse della loro Chiesa Parrocchiale”.
Gli estimati deliberarono dunque la cessione del territorio, già riscattato dalla comunità nel 1652 al conte Rossini; il prezzo fu quantificato in lire 721.3.3. “in doppie stampe di Spagna al 25.10 cadauna, o in doppie stampe di Milano al 25.5.”. Da allora le due pratiche iniziarono a correre su due binari ben distinti.
E’ bene, però, fare un piccolo inciso riguardo a quell’antica vicenda. Nel 1652 il Governo spagnolo, pur di raggranellare ulteriori danari per finanziare le guerre di Sua Maestà Filippo IV aveva deciso di mettere all’asta i comuni rustici, consentendo loro il diritto di riscattarsi. Per evitare di perdere i dazi che questi pagavano da secoli intervenne la città di Como, che affidò ai propri procuratori, il notaio Carlo Lucini, Carlo Valera e Francesco Porro, il compito di promuovere il riscatto delle terre in vendita offrendosi di “per prezzo d’essa redentione pagare lire ventisei, soldi tredeci e dinari quattro per ciascun foco, con riserva, e patto particolare di poter recuperar il danaro da dette Pievi, e sue terre respettivamente, che si spenderà nella redentione” con l’assenso dei sindaci delle tre pievi, Giovanbattista Cattaneo di Zezio, Antonio Rezzano di Uggiate e Carlo Rusca di Fino. Tutti i comuni rustici, e quindi anche Paré, furono tenuti a formalizzare mediante un solenne convocato tale decisione [3].
Torniamo, con un balzo di un secolo, alla vicenda della campana. Finalmente nel 1775 i rappresentanti di Paré si accordarono con il fonditore, un milanese in quei giorni a Como. Nel 1777 gli alti tribunali del Regno concessero il diploma di Maria Teresa con cui si conferiva il titolo di feudatario al conte Rossini Bononi, titolo che, ironia della sorte, sarebbe rimasto valido per pochi anni, sino all’ingresso dei dragoni napoleonici e la successiva abolizione dei titoli nobiliari.
Al conte Carlo successe poi il figlio Abbondio, il quale ebbe la malasorte di vedere l’inizio della parabola declinante della dinastia. Nei cartigli del notaio comasco Giacomo Filippo Clerici si possono riscontrare nel primo decennio dell’Ottocento i segni tangibili della decadenza economica della famiglia, Abbondio fu costretto a contrarre, infatti, numerosi mutui. Le rendite agricole erano stagnanti, l’economia afflitta dalla guerra (dal 1790 al 1815 abbiamo un susseguirsi di milizie in marcia in terra comasca, dapprima la dominazione napoleonica con “gli alberi della libertà”, poi l’arrivo degli austro-russi, il ritorno dei francesi con il Regno d’Italia prima e l’Impero in seguito, la Restaurazione definitiva dopo il Congresso di Vienna), il clima di paura palpabile.
Gli antichi feudatari di Paré avevano ormai imboccato il viale del tramonto. Nel 1809 morirono prima il conte Abbondio (allora “Cittadino” come imponevano i francesi) poi il figlio prematuramente. Anche un freddo rogito del Clerici lascia trasparire lo sconforto della famiglia:
“Si premette pure che cessato di vita in Febbraio dello scorso anno 1809 il predetto Sig. Abbondio Rossini, lasciate avendo dopo di se tre figlie Sig.re Carolina, Anna Maria, ed Antonia, non che del ventre pregnante della Sig.ra Teresa Bossi di lui Moglie, e vedova superstite […] abbia disposto nella ¼ parte disponibile a favore del ventre pregnante, qualora se fosse nato un figlio maschio, e nel rimanente della di lui sostanza, ed eredità abbia restituito eredi a titolo universale che sopranominate tre di lui figlie, e lo stesso ventre pregnante […] infatti sotto il giorno 2 Aprile dello scorso anno 1809 dal ventre pregnante dell’anzidetta Sig.ra Teresa Bossi vedova Rossini sia nato un figlio maschio, cui fu imposto il nome di Carlo Abbondio, e che questi morì nel giorno 6 Aprile suddetto, per cui nella ¼ della di lui virile, non meno che della porzione disponibile allo stesso prelegata vi è immessa erede l’anzidetta Sig.ra Teresa Bossi di lui madre, e nelle restanti tre parti vi sono successe coeredi per la qual quota le sopranominate Sig.re Carolina, Anna Mariam ed Antonia Rossini di lui sorelle a termine del disposto dell’art. 751 Codice Napoleone”.
Ma, a quei tempi, a una donna non era concesso di amministrare patrimoni nobiliari lasciando due figlie, alla contessa Teresa Bossi, rimaritata Vitalba, fu affiancato Tommaso Odescalchi come tutore delle minori, per accomodare gli sposalizi delle figlie ed una congrua liquidazione del patrimonio Rossini in questo lembo del comasco. Anna Maria andò in sposa al Nobile Marchese Luigi Cortese, Ciambellano del duca di Modena, anche Carolina fu maritata, mentre per Antonietta, che era minorenne, ci si dovette accontentare di promettere la mano al conte Luigi Belgioioso.
Teresa Bossi vendette tutti i possedimenti ereditati esistenti in quel di Drezzo (massaria di Prevella con palazzo), Paré (massaria di Camponuovo), Gironico, Cavallasca, Pedrinate e la casa a Como nel vicolo di S. Ambrogio mediante asta pubblica intorno al 1815 [4]. L’acquirente veniva dal lago, tal Carlo Cetti di Torriggia, località di Argegno, sborsò ben 285.000 lire austriache per i terreni in campagna ed altre lire 6.148,14 per la casa cittadina, quest’ultima somma destinata a dotare le figlie più piccole.
Il fulgore della famiglia Rossini si spegne intorno al 1820 con la scomparsa di un altro membro della dinastia, Teresa Rossini, figlia del conte Carlo e sorella del conte Abbondio già sposata con il conte Raffaele Antonio Turconi, la quale dettò le sue volontà dal letto di morte al notaio Gaetano Perti il 12 luglio 1823 “sana di mente, loquela, vista ed intelletto, ed indisposta di corpo, che giace in letto nella stanza posta al primo piano superiore, che guarda verso la corte della sua casa di abitazione” nel borgo di S. Fedele [5]. Nominò erede, forse per solidarietà femminile, la Nobile Sig.ra Donna Teresa Bossi rimasta vedova del Sig. Conte Abbondio Rossini mio fratello, e rimaritata Vitalba.
Anche il testamento di Teresa Rossini può dare un’indicazione dell’opulenza del patrimonio dell’ormai declinante famiglia Rossini; ella richiese per sé funerali da svolgere nella chiesa parrocchiale di S. Fedele, proprio al centro della città murata, “senza pompa eccessiva”, chiedendo poi di celebrare 1000 messe in suffragio nei 6 mesi successivi.
Seguono poi tutta una serie di legati pii, i lasciti a favore dell’anima spinti da impulsi religiosi e di carità tanto in uso nella società bene del tempo, qui troviamo come beneficiari l’Ospedale S. Anna e la Cà d’Industria, le principali istituzioni caritative dell’epoca:
“Allo Spedale Maggiore di questa Città lire tremila di Milano […] a vantaggio esclusivo degl’infermi, che ivi si accolgono, e coll’obbligo al detto Spedale, o suoi amministratori di corrispondere annualmente, e sino in perpetuo alla Casa d’Industria, o a qualunque altro stabilimento a sollievo de’ poveri potesse venire ad essa sostituito, ed aggiunto sì in questa Città, che ne’ suoi Borghi, lire trecento di Milano […], come pure nel caso che fosse ripristinato l’ordine de’ Carmelitani Scalzi di Santa Teresa e rimesso il Convento dello stesso ordine in questa Città, e Borghi, di corrispondere al Convento che come sopra verrà rimesso, nel giorno di S. Giuseppe di ciascun’anno in perpetuo, finché assisterà il detto Convento, annue lire quarantotto di Milano […], o fino a tanto che non sia ripristinato l’Ordine, ed il Convento come sopra, o quando in caso dovrà essere corrisposta in perpetuo nel detto giorno di S. Giuseppe alla Chiesa Arcipretale di S. Giorgio fuori di questa Città”.
Seguono poi un legato di lire quattromila alla Congregazione di Carità di Milano, e mille alla chiesa parrocchiale di Ponzate “da convertirsi da quel Parroco, e Fabbriceri nella provvista di un Baldacchino per la processione del SS.mo Sacramento, ed in altri sacri arredi come pure tutte le Reliquie dei Santi comprese quelle legate in argento, esistenti nell’oratorio mio privato di questa mia casa, eccettuate quelle, che sono appese ai muri”.
Di qui passiamo ai parenti:
Ai nipoti - figli della sorella fu Donna Marianna - Don Luigi e Donna Maria maritata De Vecchi fratello e sorella Bossi lasciò 10.000 lire di Milano, (7675. 18. 5 lire nella valuta del Regno Lombardo – Veneto, dette lire Italiane o austriache), mentre agli altri loro fratelli Don Giuseppe, Don Pietro, Don Giulio, e Don Giovanni 3000 lire milanesi ( 2.302. 55. 6 £. italiane) a testa;
Agli altri nipoti - figli dell’altra sorella Donna Clara - il Marchese Don Benigno, Don Galeazzo, Don Raffaele, Donna Virginia Cadorna fratelli, e sorella Bossi 200 once d’argento per ciascuno, ed altri due figli della defunta Sig.ra Donna Maria Bossi maritata Spini sorella dei sudetti 200 once d’argento da ripartirsi fra loro;
La Contessa Donna Teresa Melzi, altra nipote, ricevette il quadro esistente nella stanza da letto della testatrice nella casa di campagna rappresentante la Beata Vergine Santa Maria, Elisabetta, S. Giovanni Battista ed il Bambino;
Al cugino Don Giulio Bellasi andarono 100 once d’argento “pregandolo d’aggradire questo tenue attestato della mia riconoscenza alla premura, colla quale si adoprò nelle varie occasioni ch’abbi bisogno de’ suoi lumi e della sua direzione”.
Furono gratificati anche domestici ed inservienti:
Al fattore che prestava servizio nella Cascina di Tavernerio, Antonio Gatti, andarono 2000 lire milanesi (1535. 63. 7. £ italiane) “ed il letto su cui dorme il mio servitore nella casa di Casina colla rispettiva coperta e 4 lampade” oltre all’obbligo per l’erede di non licenziarlo, senza preavviso di 2 anni, e di mantenerne inalterato il salario (cosa avrebbe detto Berlusconi?);
Alla servente Elisabetta Bossi 100 lire italiane annuali oltre 4 lenzuoli 4 fodere 3 coperte;
A Carlo Patazzi soldi 20 di Milano, il letto, lenzuola ed abiti;
Ai massari di Cascina Tavernerio 300 lire milanesi (230. 25. 6. Lire italiane) per ciascuna famiglia.
Scopriamo, poi, che questa pia donna con il marito Don Ippolito Turconi aveva realizzato un Oratorio dedicato a S. Ippolito posto nella stessa cascina, nel quale era disposta una cappellania, il defunto marito vi aveva destinato tutti i beni posti nella Cascina Tavernerio per la celebrazione quotidiana di messe in suo suffragio, destinati anche alle riparazioni del caso, manutenzione dei sacri arredi e stipendio del cappellano (650 lire milanesi - 49. 8. 88. Lire italiane) trimestrali in oro od argento, 7 brente di vino, legna da fuoco, stanze d’abitazione, mobili, esclusa la biancheria, “dovrà permettersi al medesimo di servirsi della verdura del giardino della casa per proprio uso”. Al cappellano, Don Luigi Fontana, andò anche un lascito particolare della Rossini di 300 lire milanesi (130. 25. 6. Lire italiane).

NOTE:
[1] Così descrive lo stemma nobiliare della famiglia Rossini il Codice Carpani: "DE ROSINIS Scaglionato di rosso e d’argento; al capo d’argento, carico di una R maiuscola di rosso, accostata da due rami di rosa, stelati di nero e fioriti ognuno di tre pezzi in ventaglio di rosso; il capo attraversante i vertici dei primi quattro scaglioni".
[2] ARCHIVIO COMUNALE DI PARE’, cart. 5, ”Contratto di infeudazione del territorio comunale in favore del Conte Carlo Rossini Bononi”. Un grazie particolare a Danilo Bernasconi che ne ha favorito e consentito la consultazione.
[3] Riportiamo il pesante formulario a stampa, steso dal notaio Filippo Peverelli e conservato presso l’Archivio di Stato di Como (ARCHIVIO DI STATO DI COMO (ASCo), Ex Biblioteca, cart. 19) sulla situazione di Paré:
“Nel nome del Signore nell’anno milleseicentocinquantadue indizione quinta del primo lunedì del mese di luglio. Convocata e riunita dal console la comunità degli uomini di Paré Pieve di Uggiate Diocesi di Como nella piazza pubblica, dove si è soliti tenere le riunioni per trattare gli affari della comunità al suono della campana come vuole la consuetudine, e tutti sono stati convocati porta a porta per questo specifico ordine del giorno da Dionisio Salvadè (…)
Nella stessa convocazione, è presente e introduce la discussione il predetto console Dionisio, e con lui gli uomini sotto menzionati che hanno voce in detta comunità
Carlo Coduri figlio di Giovanni Angelo
Angelino Salvadè figlio di Domenico
Carlo Grisoni figlio di Francesco
Giovanni Bernasconi figlio di Battista
Antonio Butti figlio di Bernardino
Battista Testoni figlio di Pietro
Dionisio Curti figlio di Battista
Andrea Bernasconi figlio di Domenico
Che sono stati, e sono (come affermano) i due terzi, e anche di più tra tutti i convocati di questa comunità, ciascuno per sé, così anche a nome degli altri assenti (…) assumono l’obbligo per tutta la comunità (…)
Con voti unanimi favorevoli e nessuno contrario
Avuta notizia delle cedule predette a nome della Regia & Ducale Camera di questo Regno di Milano, per l’infeudazione delle tre pievi inferiori di questa Diocesi di Como, e precisamente di Fino, Uggiate & Zezio, messe all’asta da parte della Regia & Ducale Camera a persone private, oppure non per proposta dei sindaci delle stesse pievi, ma in loro nome, e tramite gli agenti della Città di Como fatta nel modo seguente (…)
In termine delle cedole esposte per l’infeudazione delle tre Pievi di Zezio, Fino, & Uggiate date sotto li 3 Giugno corrente 1652 compare la Città di Como, & per essa Carlo Lucino Notaro di Milano, Carlo Valera, & Francesco Porro suoi messi, & Procuratori in solidum, & offeriscono redimere tutte le terre delle dette tre Pievi no redente, o infeudate, e per prezzo d’essa redentione pagare lire vintisei soldi tredeci, e dinari quattro lir. 26. 13. 4. per ciascun foco, con riserva, e patto particolare di poter recuperar il danaro da dette Pievi, e sue terre respettivamente, che si spenderà nella redentione di quelle con le spese, dritti, & onorarij ad essa concernenti, con che resti la giurisdittione di dette Pievi, e sue terre cò’l demanio libero, e potestà assoluta del Rè N.S. come al presente si trovano unite alla giurisditione della Città nel stato, che di presente si trovano, ne si possino mai in avenire infeudar ad alcuno, quando non vi fosse un special consenso della Città, e terre medesime, e con tutti li patti, privilegij, e prerogative, che si sono servati, ò concessi all’altre terre, che si sono redente, e non altrimenti & con conditione, che si faccia un solo Instrumento (…)
E’ lecito che sappiano di non poter essere spinti a effettuare questa vendita, e men che meno a considerare di essere sottoposti alla giurisidizione di altri, che non sia la Regia & Ducale Camera dello Stato di Milano, sotto la quale sono nati, vivono, e sperano di vivere, e perciò, nel modo (in cui possono) occorre per necessità che la stessa offerta [di rendenzione] a nome delle suddette pievi alla Regia & Ducale Camera, decretino di avere fatto come sopra, nota, gradita, & valida a tenore del presente Istromento, come ratificano, lodano, e approvano quanto li riguarda”.
L’atto continua poi con un pesante formulario tipico degli atti secenteschi, che ripete quanto enunciato in premessa e si chiude con i testimoni Dionisio Bernasconi di Drezzo e Battista Ortelli di Cavallasca e come pronotari Benedetto Bernasconi e Giuseppe Bernasconi, entrambi di Camnago, ed Antonio Quadranti di Drezzo.
[4] ASCo, Archivio notarile, Gaetano Perti, cart. 4999, 14.10.1825, “vendita di beni immobili in Paré, Gironico e Drezzo da parte della Contessa Teresa Vitalba”.
[5] ASCo, Archivio notarile, Gaetano Perti, cart. 4998, 12.07.1823, “Testamento stragiudiziale scritto di Teresa Rossini”.