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L'UOMO SELVATICO IN ITALIA
di Giorgio Castiglioni
L’uomo selvatico
dipinto in un edificio di Sacco, in Valtellina (da Perego 2001, p.14). |
Leggende
Le leggende sull’uomo selvatico sono molto diffuse lungo l’arco
alpino e gli Appennini. L’uomo selvatico vi compare come un vero e proprio
uomo, dotato di razionalità, più ingenuo e semplice, forse, ma
anche superiore all’uomo civilizzato in alcune attività.
Le diverse narrazioni hanno elementi comuni tra loro (cfr Centini 1989, p.17;
Centini 2000, p.10).
Una prima caratteristica ricorrente è nell’aspetto dell’uomo selvatico, il cui corpo è ricoperto da un folto pelo che rende in genere superfluo l’uso di abiti.
Sono numerose e provenienti da diverse zone le storie in cui l’uomo selvatico
appare come un maestro dell’arte casearia e insegna agli uomini a fare
il burro e il formaggio. Il suo insegnamento si interrompe prima che venga rivelato
un ultimo segreto del mestiere, in genere quello di trarre la cera dal siero
del latte.
A Lucignana (Lucca), si racconta che l’uomo selvatico, dopo aver insegnato
a fare il burro, stava per andarsene, ma gli uomini insistettero tanto che si
fermò ad insegnar loro anche a fare il cacio. Fece per andarsene, ma
anche questa volta fu fermato da inviti pressanti a proseguire e così
spiegò come produrre la ricotta. A questo punto lo lasciarono andare
e lui, lasciando la compagnia, fece sapere che si erano persi un’ultima
lezione: “Se mi ci tenevate anche un po’ vi c’insegnavo a
levare anche l’olio” (Cordier 1986, p.206).
Non diversa è la risposta data dall’uomo selvatico della Valle
del Fersina: “se tu mi avessi chiesto ancora qualcosa, io ti avrei detto
di più” (Jorio 1994, p.98).
In Val d’Aosta, l’ommo sarvadzo, dopo aver insegnato a produrre
i vari tipi di formaggio, voleva spiegare come rendere utile anche il siero
del latte servendosi di un fiore, la nigritella. Agli uomini questa operazione
sembrava assurda e, mostrando poca riconoscenza e scarsa finezza, risero del
selvatico il quale si adombrò, se ne andò e non rivelò
mai il segreto che stava per svelare (Cordier 1986, pp.203-204; Centini 1989,
p.67).
Nel Biellese a far allontanare l’uomo selvatico, e con lui i suoi preziosi
insegnamenti, è uno scherzo giocatogli da alcuni giovinastri che resero
bollente la pietra su cui era solito sedersi o, secondo un’altra versione,
vi posarono una chiave arroventata (Centini 1989, p.21).
Per apprendere i segreti del selvatico, gli uomini usavano anche mezzi poco
rispettosi.
Il salvanel della Valsugana fu catturato facendolo ubriacare per costringerlo
a rivelare i suoi segreti. Fu rilasciato dopo aver insegnato la lavorazione
di burro, caglio e formaggio, prima che spiegasse come trarre la cera dal siero
(Garobbio 1973, p.101).
Poteva anche andargli peggio. A Vinca (Massa) si narra che dopo che gli fu carpito
il modo di fare la ricotta ed il burro, l’uomo selvatico fu addirittura
ucciso (Cordier 1986, p.207).
Devo alla cortesia della signora Anna Zecca un’interessante informazione su Sacco, un paese della Valtellina dove si può vedere un dipinto dell’uomo selvatico (ne parlerò più avanti). Si raccontava che se, quando si faceva il formaggio nelle baite, non si lavorava per bene, l’umìn selvàdich compariva alla finestra e correggeva gli errori commessi. Curiosamente, nonostante in questa storia appaia come un personaggio saggio ed utile agli uomini, l’umìn selvàdich era usato anche come spauracchio per i bambini (Zecca 2004).
A Bellino (Blins) sono invece le foulatones (le “stupidone”) ad insegnare l’arte casearia, chiedendo di mantenere segreto il loro insegnamento. La loro fiducia viene tradita degli uomini e le foulatones, sdegnate, se ne vanno. Anche nelle Valli Valdesi si racconta di “donne-fate” che insegnano la lavorazione dei latticini (Jorio 1994, p.95).
L’uomo selvatico è anche considerato abile nel far pascolare il
bestiame.
Il salvanel della Valsugana “ha un gregge numeroso di capre dalla lana
abbondante” (e in più ruba il latte dalle bestie altrui) (Garobbio
1973, p.101).
In altre storie gli uomini affidano all’uomo selvatico le loro bestie
(Garobbio 1988, p.246; Centini 1989, pp.45-46; Centini 2000, pp.21-22).
In genere, come abbiamo visto, l’uomo selvatico è presentato come
colui che ha insegnato agli uomini la lavorazione dei derivati del latte. In
qualche storia, però, insegna anche altre utili conoscenze, come quella
di guarire il bestiame, di riconoscere le erbe medicinali, di lavorare il ferro
(Garobbio 1963, pp.19-21; Garobbio 1988, p.246).
Una leggenda valdostana, per esempio, narra che l’ommo sarvadzo, dopo
l’episodio della nigritella citato sopra, si era trasferito nella Val
di Cogne e, dando ancora prova della sua generosità, si era messo ad
insegnare agli uomini l’uso del ferro. Ma anche qui gli uomini ricambiarono
la sua disponibilità con l’ingratitudine e il selvatico decise
di lasciare i monti della Val d’Aosta (Cordier 1986, pp.203-204; cfr Centini
1989, p.70).
Il salvan della Val Gardena aiutava i contadini nel loro lavoro (Centini 2000,
p.15).
Quando c’era vento, l’ommo sarvadzo della Val d’Aosta “si
nascondeva e nessuno sapeva dove fosse andato a rintanarsi”. Anche nelle
valli piemontesi in cui Massimo Centini ha raccolto le testimonianze degli abitanti
del luogo, l’uomo selvatico teme il vento ed è così pure
in Toscana (Cordier 1986, pp.203, 206-207; Centini 1989, p.102; Centini 2000,
p.21; cfr Jorio1994, p.96).
A Coreglia (Lucca) si racconta che l’uomo selvatico ride quando c’è
brutto tempo perché sa che poi arriverà il sereno e viceversa
piange quando c’è bel tempo perché arriverà poi il
mal tempo (Cordier 1986, p.206; cfr Centini 1989, pp.77-78).
Di questo curioso comportamento si parla anche nei versi del Dittamondo
(1367) di Fazio degli Uberti: “Come s’allegra e canta l’uom
salvatico / Quand’il mal tempo tempestoso vede / Sperando nello buono,
ond’egli è pratico” (cit. in Garobbio 1967, p.77; Cordier
1986, p.191; Garobbio 1988, p.246; Centini 1989, p.77).
Anche Matteo Maria Boiardo, nell’Orlando innamorato (libro I,
canto XXIII, ottava 6) scrive dell’uomo selvatico:
E dicesi ch’egli ha cotal natura,
Che sempre piange, quando è il cel sereno,
Perché egli ha del mal tempo alor paura,
E che ‘l caldo del sol li vegna meno;
Ma quando pioggia e vento il cel saetta,
Alor sta lieto, ché ‘l bon tempo aspetta.
In quasi tutte le leggende, l’uomo selvatico è un essere pacifico.
Anzi, talvolta è lui a subire derisioni o scherzi sciocchi, ma reagisce
semplicemente allontanandosi e non facendosi più vedere.
In genere è una figura molto seria, ma in qualche racconto può
essere più allegro.
Il gigiat della Val Masino, per esempio, suona lo zufolo, ride, grida e balla
(Garobbio 1963, pp.151-152; Garobbio 1967, p.77; Garobbio 1988, pp.249-250).
Il massaruò del Cadore ama suonare il subiotto (uno strumento a fiato)
per far ballare i giovani ed “è d’umore allegro, socievole,
combina tiri birboni alla gente” (Garobbio 1977, pp.67-68; Jorio 1994,
p.97).
Anche quando si mette in testa di combinare guai, comunque, il selvatico appare
semmai goliardico, e forse anche un po’ stupidotto, più che malvagio.
Secondo un anziano della Val Grana (Cuneo), il sarvanot, anche se “non
era cattivo, faceva dispetti, soprattutto alle donne”. Buttava a terra
i panni stesi, per esempio, o scambiava il sale con lo zucchero. O ancora si
introduceva nelle stalle per far confusione con le catene delle mucche (Centini
1989, p.48; Centini 2000, p.22).
Aurelio Garobbio riferisce che i servan piemontesi erano “folletti”
dispettosi che intrecciavano le code dei cavalli, mettevano i ricci delle castagne
nei letti e si lasciavano andare ad altre amenità, ma altre volte sapevano
anche rendersi utili mungendo le mucche, tagliando l’erba, raccogliendo
il fieno (Garobbio 1963, pp.25-26).
Anche ai salvanelli, o sanguanelli, dell’altopiano dei Sette Comuni piaceva
giocare con le catene delle mucche ed inoltre si divertivano a nascondere oggetti
e a spaventare gli innamorati. Altro loro scherzo era quello di portare fuori
strada i viaggiatori (ma poi magari ci ripensavano e andavano a recuperarli)
(Garobbio 1975, p.114).
“Dispettoso e nocivo” era il sarvanòt della Val Maira (Piemonte).
A Melle un contadino, stanco degli scherzi di un sarvanòt, lo murò
vivo nella grotta dove si nascondeva (Centini 1989, pp.99, 102).
Raramente l’uomo selvatico è dipinto come un essere feroce e addirittura
antropofago.
In una storia di Montìcolo (Trentino Alto Adige), un uomo selvatico divora
la moglie di un contadino e inchioda alla porta una parte del corpo (Garobbio
1975, p.19; cfr anche Garobbio 1977, p.105; Garobbio 1988, p.248; Centini 1989,
p.32).
Anche il bilmon della Val Fersina (Trentino) “insieme a un corteo di spiriti
dannati inchioderebbe parti del corpo delle proprie vittime alle porte delle
case” (Centini 1989, p.165).
Dei salvanchi di Sassalbo si dice che siano “irsuti come caproni e più
feroci dei lupi” e che non solo rubino negli alpeggi, ma anche “appetiscano
la carne umana” (Garobbio 1963, p.145; Garobbio 1969, pp.179-180).
Il mazzarol del Cismon “è piccolo di statura, calza zoccoli, ha un abito di lana rossa, ha un proprio gregge e lo governa. Ha insegnato a cuocere i formaggi, a ricavare la cera dal siero”. Su di lui si racconta una curiosa storia: chi per sbaglio calpesta una sua impronta è costretto a seguire le sue orme sino alla caverna dove riceve polenta e latte e deve curare il gregge finché vuole il mazzarol (Garobbio 1975, p.145; vedi anche Garobbio 1977, p.37).
L’uomo selvatico è di solito raffigurato come un essere solitario,
ma in qualche storia cerca, in un modo che non poteva essere molto apprezzato
dagli uomini, di procurarsi compagnia.
Si narra che in una caverna presso Andorno Micca, vicino a Biella, viveva un
om salvei che “se ne stava isolato, ma aveva un animo buono e generoso:
saggio e pacifico, viveva con il suo gregge di pecore e capre”. Anche
qui il selvatico era esperto nell’arte casearia e di buon grado aveva
accettato di insegnare alle donne a fare il burro e il formaggio. Tuttavia,
invaghitosi di una ragazza, l’aveva rapita e questo, ovviamente, non era
piaciuto agli abitanti del luogo che erano andati a riprenderla con la forza.
Dopo questo scontro, l’om salvei non si era più visto (Cordier
1986, p.201).
Anche a Regnano (Massa) si parla di rapimenti di donne da parte dell’uomo
selvatico (Cordier 1986, p.207).
Del salvanel della Vasugana si dice che rapisse i bambini, allevandoli poi con
grande amore (Centini 2000, p.15).
Abbiamo sin qui parlato di “uomo selvatico” al singolare, come,
in effetti, è in genere nelle leggende che lo riguardano. Talvolta, però,
i selvatici sono più d’uno.
Una leggenda della valle di Poschiavo parla dell’arrivo di una “frotta
di selvaggi” provenienti dal monte Sassalbo (Perego 2001, pp.16-17).
Secondo un anziano della Val Grande di Lanzo (Piemonte) “una volta erano
tanti […]; vivevano soli, ma erano parecchi”. Centini riferisce
che quasi tutte le persone da lui intervistate in questa valle e nella Val Grona
(in provincia di Cuneo) “sono concordi nell’affermare che esistono
ancora discendenti del Selvaggio e li identificano con quelle persone, spesso
malformate o deprivate del linguaggio, che vivono in abitazioni distanti dal
centro abitato”. Un altro anziano interpellato riferiva che “i vecchi,
come mio zio, dicevano che era nero e che il selvaggio esisteva” ed un
altro ancora diceva di sapere “che un selvaggio c’è ancora,
vive su in montagna con le capre” (Centini 1989, p.47; Centini 2000, pp.21-22).
In qualche storia compaiono anche donne selvatiche.
Secondo un racconto, di tanto in tanto da Giuribrutto e dai Lastei del Predazzo
scendevano delle donne selvatiche. Una di queste chiese ad una filatrice a ballare
con lei. Un po’ perplessa, la ragazza accettò l’invito e
danzarono per tre giorni di fila, al termine dei quali la donna selvatica le
regalò tre foglie di betulla. Anche se le veniva da ridere, la ragazza
si trattenne e accettò il dono. Le foglie si trasformarono in oro (Garobbio
1963, pp.184-185).
Sui monti di Onies (Trentino Alto Adige), secondo la leggenda, vivevano famiglie
di uomini selvatici e le loro donne “crescevano con grande amore i figli
come fanno tutte le mamme del mondo” (Centini 1989, p.32).
Nelle Alpi centro-orientali si parla delle anguane, donne selvatiche che hanno
uno stretto rapporto con le acque. Le anguane sono conosciute anche con altri
nomi: “Agane, Subiane, Zubiane, Aiguane, Oane, Longane, Pagane, Pagagnole,
Aganis, Aguanes, Vivane, Gane, Guanes, Ghiane, Anghianae, Bregostane, Ondine,
Sagane, Vane, Aivane, Guandane, Angene”. Sono spesso presentate come lavandaie
o filatrici (Centini 2000, pp.30-31).
Una leggenda friulana un po’ inquietante dice che le anguane “che
sorprendevano una donna a filare quando non era consentito, la divoravano e
avvolgevano le sue interiora sul fuso” (Centini 2000, p.31).
In alcune storie si dice che le anguane abbiano il piede caprino. Una leggenda
le descrive addirittura come “mostri metà donne e metà serpe”,
alla cui sgradita presenza fu posta fine con un esorcismo del vescovo di Trento
(Garobbio 1975, p.153; Garobbio 1973, p.31).
I vescovi di Trento dovevano essere specializzati in questi esorcismi perché
uno di loro avrebbe pure allontanato definitivamente da Faver, in Val Cembra,
un uomo selvatico che importunava gli abitanti ed in particolare le donne (Garobbio
1973, p.109; Garobbio 1988, p.248; Centini 1989, pp.42-43; Centini 2000, p.87).
In altre storie, invece, anguane ed altre donne selvatiche sono esseri amabili
al punto che gli uomini ne vengono affascinati e le sposano.
C’è una leggenda assai triste secondo la quale una donna, invidiosa
del fascino che una salvaria aveva su un giovane, ordì una trama contro
di lei. La salvaria fu uccisa a sassate. Dal suo sangue nacquero le sassifraghe
di Valparola (Garobbio 1963, p.203).
Al passo del Falzarego, vicino a Cortina d’Ampezzo, si racconta la storia
di un taglialegna che si innamorò di una bellissima ragazza che “era
una Salvaria, ossia una donna del bosco, costretta a vivere nelle grotte, tra
le rocce, perché gli uomini le avevano cacciate dalle loro terre”.
La salvaria accetta di sposarla a condizione che il taglialegna non usi mai
il suo nome. Un giorno, però, l’uomo viene a sapere da un’altra
salvaria il nome della moglie e, impaziente, la chiama. Non vedrà più
la donna del bosco (Bertino 1972, pp.366-367; vedi anche Garobbio 1975, p.173).
Una storia uguale si racconta per un’anguana sposata da un uomo (Canestrini
1988).
In altre storie, il gesto “proibito” può essere diverso.
Due contadini della Val Ridanna che avevano sposato due donne selvatiche dovevano
invece ricordare di non nominare mai il sole. Naturalmente capitò l’occasione
in cui se ne dimenticarono e le consorti abbandonarono loro ed i figli rifugiandosi
sulle montagne (Garobbio 1973, pp.147-148).
Un montanaro di Pezzei sopra Colfosco non doveva toccare né sfiorare
con il dorso della mano il volto della ganna che aveva sposato. Un giorno, avendo
le mani occupate, la ganna chiese al marito di allontanarle dal viso un moscerino
che la infastidiva. Lui la accontentò, ma inavvertitamente toccò
la faccia della moglie con il dorso della mano. Lei lanciò un urlo disperato
e, dopo aver guardato desolata il marito ed i figli, scomparve (Garobbio 1973,
p.147).
Per un giovane di Calalzo, la condizione era che non chiamasse mai l’anguana
che aveva sposato “pie’ di capra”. Il marito lo fece e l’anguana
sparì (anche se forse in questo caso sarebbe a ragione sparita anche
una donna “normale”) (Garobbio 1977, p.73).
Le leggende sull’uomo selvatico sono dunque molto diffuse anche se, come
ha fatto Rossana Sacchi per la Valtellina, si può chiedersi “se
si tratti di narrazioni effettivamente diffuse in loco o se siano soltanto una
generica ripresa di folklore alpino mutuato da altre zone” (Sacchi 1995,
p.479).
Il numero di queste storie ha portato Umberto Cordier ad ipotizzare che potessero
essere basate su un essere reale: “La mole delle leggende è così
notevole da far pensare alla reale esistenza di qualche ominide selvaggio in
tempi remoti: l’intensa urbanizzazione d’Europa, più precoce
che in altri luoghi del mondo, dovette ridurre progressivamente lo spazio vitale
di questi esseri fino a causarne l’estinzione” (Cordier 1986, p.188).
Pur apprezzando molto gli studi di Cordier e la cortesia dell’autore,
sempre disponibile a condividere le informazioni di cui ha conoscenza, non credo
però che si possa legare la figura fiabesca dell’uomo selvatico
della leggenda ad un essere reale.
Toponomastica
“Nel Biellese, non lontano dal Lago della Vecchia nella valle d’Andorno,
si addita lo speco dove abitava l’Uomo Selvatico; a Prevano in Vallelunga
– siamo nell’alta Venosta – una rientranza della roccia è
detta il Sasso dell’Uomo Selvatico” (Garobbio 1988, p.245).
A Levigliani (Lucca), nelle Alpi Apuane al confine tra Toscana e Liguria, c’è
una caverna chiamata la Tana dell’Uomo Selvatico. Secondo la tradizione
vi abitava un uomo selvatico che viveva isolato e che aveva insegnato agli uomini
la lavorazione dai latticini (Cordier 1986, pp.205-206).
In Piemonte troviamo la Tuna d’la Maria Morta che si diceva essere il
rifugio di una donna selvatica (sopra Fenestrelle, in Val Chisone), il pertus
dal Sarvanòt (a Melle), il Bric del Selvatico (a Chiampernotto, nella
Val Ala). Sopra Cagnò (Trentino) c’è il bus del Salvanel
(Centini 1989, pp.93-100).
A Chiavenna c’è via dell’Homo Selvatico. C’era un’Osteria
dell’Uomo Selvatico che, dopo la chiusura, è stata riaperta in
un altro edificio come Trattoria dell’Uomo Selvatico (Cordier 1986, p.199;
Sacchi 1995, p.510; Perego 2001, pp.50-51).
L’insegna della Trattoria dell’Uomo Selvatico a
Chiavenna
(da Perego 2001, p.51).
Anche a Milano c’era un’osteria intitolata all’uomo selvatico
(Sacchi 1995, p.510).
Ce n’era una (la citò il poeta Bartolomeo Dotti, 1651-1731) anche
a Venezia dove ancor oggi, vicino a piazza San Marco, c’è la Calle
Drio al Salvadego (Cordier 1986, p.199; Centini 2000, p.46).
L'uomo selvatico dipinto e scolpito
L’uomo selvatico è stato spesso dipinto o scolpito. Va notato però che, come ha osservato Rossana Sacchi, la leggenda dell’uomo selvatico “non presenta comunque alcun legame con la rappresentazione iconografica dell’Uomo Selvatico stesso” (Sacchi 1995, p.479).
A Sacco, in Val Gerola (in provincia di Sondrio), su una parte interna di un edificio fu dipinto nel 1464 da tali Battistino e Simone un uomo selvatico, coperto da un folto pelo bruno che lascia scoperti solo il volto, le mani ed i piedi. In mano ha un grosso e nodoso bastone e un’iscrizione vicina alla sua testa recita: “Et sonto un homo salvadego per natura chi me offende ge fo pagura”. E’ stata avanzata l’ipotesi che Battistino e Simone siano della famiglia di pittori Baschenis di Averara, ma secondo Eugenia Bianco tale identificazione “rimane ancora da dimostrare”. La Camera picta di Sacco, fino a qualche tempo fa adibita a fienile (e una voce popolare vorrebbe che in passato fosse il refettorio di un monastero), oggi ospita il Museo dell’Homo Salvadego (Pini 1922; Benetti 1986; Cordier 1986, p.196; Centini 1989, pp.39-40; Sacchi 1995, pp.480-485; Perego 1998; Il Medioevo… 2000, p.317; Perego 2001, pp.31-32, 53-57; Zecca 2004).
A Tirano (ancora in provincia di Sondrio), sulla Porta poschiavina, furono dipinti due salvanchi dal pelo rossiccio che impugnavano un bastone. Secondo il giudizio di Massimo Centini, uno dei due “appare più vicino al modello del salvadego e l’altro invece si avvicina al modello dell’eremita”. Purtroppo, le figure si sono deteriorate. Scrive Natale Perego: “Durante un nostro ulteriore e recente sopralluogo abbiamo constatato come lo stato di degrado dei Salvanchi tiranesi sia proseguito, al punto che oggi è possibile leggere solo l’alone della loro possente figura.” (Cordier 1986, pp.197-199; Centini 1989, p.40; Sacchi 1995, pp.485-487; Centini 2000, p.85; Perego 2001, p.43).
Su un muro della Casa di Arlecchino ad Oneta (nel comune di San Giovanni Bianco, in Val Brembana) fu dipinto un uomo selvatico con il consueto bastone e l’iscrizione “Chi no e de chortesia non intragi in chasa mia se ge venes un polteron [poltrone] ce daro col mio baston”. Il corpo sino alla vita e parte del volto sono andati perduti. L’affresco originale, risalente forse alla metà del ‘400, fu tolto nel 1939-1940 sostituendolo con una copia (Sacchi 1995, pp.487-488, 505; Centini 2000, pp.80-81; Rho 2001, pp.60-61; Perego 2001, pp.44-47).
L’uomo selvatico di Oneta
(da Perego 2001, p.46)
A Bressanone si può vedere la statua di un uomo selvatico tricefalo. La statua è forse del XVI secolo e due delle tre teste potrebbero essere state aggiunte nel secolo successivo (Garobbio 1977, p.146; Cordier 1986, pp.193-194; Sacchi 1995, p.484; Centini 2000, p.86).
A Vipiteno Giovanni de Wild, “distintosi nella lotta contro i Turchi”, fece dipingere un uomo selvatico (Wild significa “selvatico”) in uno stemma sulla sua dimora (Garobbio 1977, p.146).
Uomini selvatici compaiono anche al castello del Buon Consiglio di Trento, tra gli stucchi del Salone degli Arcieri del Palazzo Ducale di Mantova, tra le sculture del duomo di Milano e della cattedrale di Ferrara (Cordier 1986, p.192; Centini 1989, p.43; Tasso 1990; Tasso 1991; Perego 1998; Centini 2000, p.85; Perego 2001, pp.66-69).
Maschere dell'uomo selvatico
In alcune località, l’uomo selvatico è una maschera del
carnevale.
A Cepina (Sondrio), fino al 1975, sfilavano omen del bosk, femena
del bosk e bagon [figlio] del bosk. A Campitello (Val
di Fassa) l’om dal bosch partecipa al corteo e così è
nell’Agordino (Belluno) per l’om salvarek e la sua donna.
A Termeno (Bolzano) viene messa in scena la caccia e l’uccisione dell’uomo
selvatico. Anche a Tesero (Val di Fiemme) il salvanel è braccato
e quindi fucilato. Ricordano l’uomo selvatico i crapòn
di Sueglio (Lecco) e i brüt del carnevale di Schignano (Como)
(Perego 2001, pp.60-65).
A Rivamonte Agordino, nel giorno di san Marco, i giovani cacciano l’om
salvàrech “coperto di muschio e di fronde di pino” (Garobbio
1975, p.157; Garobbio 1988, p.248).
Nel 1491, le feste per le nozze di Alfonso d’Este con Anna Sforza e di Lodovico il Moro con Beatrice d’Este videro anche “staffieri camuffati da Uomini Selvatici”. Dieci anni dopo, quando Alfonso d’Este sposò in seconde nozze Lucrezia Borgia, ci furono “danze di uomini selvatici che portavano corni dell’abbondanza”. Uomini selvatici apparvero anche alle nozze di Annibale Bentivoglio con Lucrezia d’Este (Cordier 1986, p.192; Garobbio 1988, p.248).
Il "selvaggio" in mostra
Konrad Gesner riferiva che a Genova nel 1548 due “satiri” vivi, uno piccolo ed uno già adulto, erano portati al seguito dell’arciduca d’Austria Filippo insieme ad una sirena morta (Gesner 1558, p.1056).
Ulisse Aldrovandi scrisse che una donna aveva portato con sé a Bologna una bambina di otto anni il cui corpo era coperto dal pelo, figlia di un “uomo silvestre” nato nelle isole Canarie che aveva anche un’altra figlia di dodici anni e un figlio di venti anni, anche loro pelosi (Aldrovandi 1642, p.16).
La bambina “silvestre” portata a Bologna
(da Aldrovandi 1642, p.18)
A Como nel 1871 il Gran Serraglio Milanese mise in mostra, oltre a leoni, tigri,
pantere, orsi, lupi, iene, boa e pitoni, anche (citiamo da un periodico di quei
tempi) “un uomo selvaggio che è veramente l’unico venutoci
sotto gli occhi. Una specie di anello fra la scimmia e l’uomo, che farebbe
andare in solluchero il venerando Tommaseo, che vuole ad ogni costo regalarci
per avi gli orangotani” (Serraglio… 1871).
L’ultima frase è evidentemente un attacco ironico alla teoria della
discendenza dell’uomo dalla scimmia. Il riferimento a Niccolò Tommaseo
è, però, un clamoroso errore, dato che questi, al contrario, nel
suo libro L’uomo e la scimmia aveva attaccato duramente tale
teoria ed il suo sostenitore Alessandro Herzen, guadagnandosi, tra l’altro,
una recensione elogiativa sul giornale stesso da cui abbiamo tratto questa notizia,
il “Corriere del Lario” (Sacchi 1869).
Non vi è ragione alcuna di mettere in dubbio la veridicità di
questa notizia. Il “selvaggio” del Gran Serraglio Milanese doveva
essere un uomo affetto da ipertricosi (crescita eccessiva di pelo).
Nei tempi passati capitava che individui con anomalie fisiche fossero oggetto
di una curiosità che oggi a ragione reputeremmo morbosa e magari esposti
come fenomeni da baraccone (Thompson 1930).
Nella stessa Como, per esempio, un paio di decenni prima del “selvaggio”
era stato mostrato a pagamento un uomo albino, presentato dalla stampa come
un “divertimento straordinario” (Spettacoli… 1853).
Anche nel caso citato da Aldrovandi (e forse anche in quello dei “satiri”
di Gesner), sembra di essere di fronte a persone affette da ipertricosi. Se
è vero che il disturbo colpiva sia il padre che i figli, è lecito
supporre che, come ha scritto Joe Nickell, che ha indagato con occhio scettico
su molti presunti misteri, la famiglia delle Canarie dovesse “soffrire
di un’anomalia genetica” (Nickell 1995, p.222).
Avvistamenti recenti
L’11 ottobre 1970 un gruppo di sei escursionisti che era andato al cratere
dell’Etna notò e fotografò sette orme simili per la forma
a quelle di uomo, ma con il segno di sole tre dita, lunghe un metro e mezzo
e poste a distanza di quattro metri l’una dall’altra. Le impronte
affondavano nel suolo per quindici centimetri. Dopo venti giorni i sei, insieme
ad altre persone, erano tornati sul luogo ed avevano scattato altre foto (Esiste…
1970).
Si parlò di una sorta di yeti dell'Etna, mentre Eugenio Siragusa, del
"Centro Studi Fratellanza Cosmica", propose addirittura "la tesi
che le tracce fossero state lasciate dalle «zampe» di un «modulo»
spaziale di atterraggio" (Conti 1971, pp.10-11).
Le misteriose ed enormi impronte erano state fotografate e le foto dovevano
essere portate all’università di Catania perché fossero
studiate (Esiste… 1970).
Secondo un articolo pubblicato su "Il giornale dei misteri", gli scopritori
delle orme avrebbero informato del ritrovamento un docente e alcuni aiutanti
dell'università, ma questi "non dimostrarono il minimo interesse"
(Conti 1971, p.10).
Non sono riuscito a sapere se qualcuno dell'università di Catania abbia
effettivamente esaminato le impronte o visto le foto. Ho scritto a tale università
per avere informazioni in merito, ma mi è stato risposto che non risulta
nulla sulla vicenda.
In ogni caso, anche se avessero visto foto come quella qua sotto, non si sarebbero
certo convinti che un gigantesco scimmione camminava sulle pendici del vulcano
(per non parlare della strampalata idea del modulo extraterrestre).
Un'orma sull'Etna (da Conti 1971, p.11)
Nell’inverno del 1974 a Ceppaloni un’anziana disse di aver visto “un essere più animalesco che umano” ed a San Leucio un ragazzo parlò di “un animale dalle sembianze scimmiesche” (Cordier 1986, p.208).
Nella valle del fiume Sele (Salerno), tra la fine del 1980 e l’inizio 1981, ci furono diversi avvistamenti di “un ominide di sesso maschile alto più di due metri, con larghe spalle, il corpo ricoperto da peli lunghissimi, e una strana testa con occhi incandescenti” (Cordier 1986, pp.208-209).
A Rosta (Valle di Susa, in provincia di Torino), all’inizio del 1982, “furono trovate grosse impronte di «qualcosa» che si spostava in posizione eretta e che addentava e graffiava con rabbia le cortecce degli alberi, ma non sembrava trattarsi di un orso. Un abitante del paese fu svegliato nel cuore della notte dall’abbaiare dei cani e vide una strana figura antropomorfa dileguarsi nella boscaglia” (Cordier 1986, p.209).
A Ripole (frazione di Montoggio, Genova), nel gennaio del 1983, un camionista avrebbe avuto un incontro ravvicinato (quattro metri di distanza) con un mostro “grosso e coperto di fitto pelo scuro, con un testone sproporzionato, in posizione eretta”. La creatura gli avrebbe scagliato contro la cagnetta da caccia. Qualche mese prima (agosto 1982), in una frazione di Genova, un agricoltore aveva trovato “nella sua vigna devastata stranissime unghiate e morsicature attribuibili ad un animale insolito sia per forma che per dimensioni”(Cordier 1986, p.209).
Nella prima metà del ventesimo secolo, un novello Frankenstein di nome
Serge Voronoff sostenne la possibilità di aumentare il vigore fisico
ed intellettuale degli uomini tramite il trapianto di ghiandole di scimmia e
addirittura di creare, effettuando l’innesto già nei bambini, “una
nuova razza di «superuomini»” e così scrivere “forse
una nuova pagina nella storia dell’umanità” (parole sue).
Per avere a disposizione scimmie per i trapianti, Voronoff aveva pensato di
allevarle nella sua residenza di Grimaldi, presso Ventimiglia, come ricordava
in un suo libro: “Essendo, in certo modo, il custode e il promotore del
tesoro di vita che le scimmie possono mettere a nostra disposizione, ho creduto
mio dovere di prendere l’iniziativa d’un primo deposito d’allevamento
di scimmie in Europa per diffondere l’esempio. L’ho stabilito al
castello Grimaldi, alla frontiera franco-italiana”. E poco oltre scriveva:
“Ogni scimmia può essere paragonata ad un’officina in cui
quel grande artefice che è la natura, forma degli organi suscettibili
d’essere trapiantati nel corpo umano, per riparare al logorìo dei
suoi. I depositi di scimmie costituiranno dunque delle vaste officine destinate
a fornire dei pezzi di ricambio per la macchina umana” (Voronoff 1930,
pp.131, 133, 169).
In un’altra sua opera, Voronoff sosteneva di aver colmato i deficit mentali
di individui affetti da cretinismo “con l’innesto della ghiandola
tiroide di uno scimpanzé” (Voronoff 1949, p.183).
Il suo nome fu ricordato dai giornali quando nell’ottobre del 1997 il
settimanale di Imperia “La Riviera” scrisse che un poliziotto ed
uno studente universitario avevano riferito di aver visto qualche mese prima
(le date attribuite ai presunti avvistamenti sono il 7 maggio ed il 27 luglio)
una “creatura mostruosa con la faccia umana ma il corpo di gorilla”
proprio a Grimaldi.
Dopo la pubblicazione dell’articolo, anche un produttore musicale svizzero
avrebbe raccontato di aver visto nei boschi di Ventimiglia nel dicembre del
1996 “una creatura gigantesca, alta più di due metri, che si muoveva
tra gli arbusti. Sembrava un incrocio tra un uomo primitivo e un gorilla”.
Aveva “i capelli lunghi, il viso di un anziano e il corpo coperto di peluria”
(Abbiamo… ed altri articoli indicati 1997).
Serge Voronoff
(dalla pagina a fianco del frontespizio di
Serge Voronoff, L’amour et la pensée chez les bêtes
et chez les gens, Paris : Fasquelle, 1936)
La presenza sullo sfondo di una curiosa figura di scienziato - stregone dà un tocco romanzesco a quest’ultimo caso, ma non ne aumenta certo la plausibilità, né si può dire che siano molto credibili gli altri avvistamenti citati.
FONTI:
* «Abbiamo visto un uomo-scimmia in Riviera»,
in “Corriere della Sera”, 23 ottobre 1997, p.19;
Uomo-gorilla avvistato a Ventimiglia, in “La Provincia”
(Como), 23 ottobre 1997, p.5; Un nuovo testimone per il misterioso uomo-gorilla,
in “La Provincia” (Como), 13 novembre 1997, p.7.
* Ulyssis Aldrovandi Monstrorum historia cum paralipomenis
historiae omnium animalium, Bononiae : Nicolai Tebaldini, 1642.
* Dario Benetti, Lo yeti nostrano, in “Bell’Italia”,
n.4, agosto 1986, pp.90-97.
* Serge Bertino, Guida delle Alpi misteriose e fantastiche,
Milano : Sugar, 1972.
* Duccio Canestrini, Una fata che si fa lontra: ecco il
segreto della sirena alpina, in “Airone”, n.89, settembre 1988,
p.173.
* Massimo Centini, Il Sapiente del Bosco : il mito dell’Uomo
Selvatico nelle Alpi, Milano : Xenia, 1989.
* Massimo Centini, L’Uomo Selvaggio : antropologia
di un mito della montagna, Ivrea : Priuli & Verlucca, 2000.
* Sergio Conti, Misteriose impronte sull'Etna, "Il
giornale dei misteri", n.6, settembre 1971, pp.8-12.
* Umberto Cordier, Guida ai draghi e mostri in Italia,
Milano : Sugarco, 1986.
* Esiste uno yeti anche sull’Etna?, in “L’Ordine”
(Como), 19 novembre 1970, p.10.
* Aurelio Garobbio, Montagne e valli incantate, Rocca
San Casciano : Cappelli, 1963.
* Aurelio Garobbio, Alpi e Prealpi : mito e realtà,
[vol.1], Bologna : Alfa, 1967.
* Aurelio Garobbio, Leggende delle Alpi Lepontine e dei
Grigioni, Bologna : Cappelli, 1969.
* Aurelio Garobbio, Alpi e Prealpi : mito e realtà,
[vol.3], Bologna : Alfa, 1973.
* Aurelio Garobbio, Alpi e Prealpi : mito e realtà,
[vol.4], Bologna : Alfa, 1975.
* Aurelio Garobbio, Alpi e Prealpi : mito e realtà,
[vol.5], Bologna : Alfa, 1977.
* Aurelio Garobbio, Considerazioni su alcune leggende delle
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* Anna Zecca, comunicazione all’autore, 21 ottobre 2004.
originariamente pubblicato nell'ottobre del 2004 sul sito www.europacz.com
aggiornamento: dicembre 2009