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Conferenza Incontro con il lariosauro (Como, 3 marzo 2006)
GIANCARLO COLOMBO
IL LARIOSAURO DEL TRIASSICO
Ho l’onore e il piacere di essere il primo a parlarvi di lariosauri –
al plurale, perché ne vedremo diversi. Per il mio (“il mio”:
sentite come me ne sono appropriato!) rivendicherei quello che era lo slogan
di una fabbrica di cioccolato: “Sono stato il primo e resto il migliore”.
Il fatto che sia il migliore è per una ragione affettiva: avendo dedicato
alcuni anni a uno studio sul lariosauro, mi ci sono affezionato. Magari altri
non saranno di questo parere. Ma sul fatto che sia il primo, credo non si possa
discutere perché è vissuto, era in buona salute, qualcosa come
oltre 230 milioni di anni fa.
Portiamoci indietro con la mente a un periodo in cui i continenti non avevano
l’aspetto che hanno ora. Voi sapete cos’è la deriva dei continenti
che è stata poi, dopo altri studi, chiamata teoria della tettonica a
zolle ed ormai è confermata. Ci troviamo nel periodo che si chiama Triassico
(fa parte dell’era mesozoica) in cui i continenti che migravano si erano
riuniti tutti insieme. In cima a questo golfo che si chiama Tetide c’erano
i bassi fondali che in seguito sarebbero diventati le nostre terre. Eravamo
più o meno 20 gradi sopra l’equatore, dove si trovano adesso l’India
o l’America centrale, tanto per intenderci. Le terre si stavano spaccando
e andando alla deriva per diventare i continenti che conosciamo oggi. A un certo
punto l’Africa ha ruotato su se stessa, ha chiuso questo golfo e l’ha
fatto diventare il mar Mediterraneo. Qualcosa come 3000 metri di sedimenti che
s’erano accumulati sul fondo di questo mare sono stati spinti fuori. Prima
si sono corrugate le rocce più profonde che hanno formato la spina dorsale
delle Alpi e poi 3000 metri di sedimenti sono andati a formare quelle che oggi
chiamiamo Prealpi. Dentro a questi sedimenti, nel calcare di Esino, abbiamo
trovato le tracce del nostro lariosauro.
C’erano formazioni che vengono chiamate piattaforme carbonatiche. “Piattaforme”
perché la loro sommità era piatta. Erano vaste centinaia di chilometri
quadrati. “Carbonatiche” perché formate soprattutto di carbonato
di calcio, che veniva dal disfacimento di conchiglie, coralli (che allora erano
ancora molto rari), altri piccoli organismi marini. Il fondo marino stava lentamente
sprofondando. Man mano che il fondo sprofondava questi organismi costruivano
e in questo modo si sono accumulati qualcosa come 3000 metri di sedimenti. Le
più importanti di queste piattaforme hanno formato le rocce delle attuali
Grigne.
Tra due di queste piattaforme c’era un solco. Sul fondo di questo solco
non circolava l’acqua, mancava l’ossigeno, non potevano vivere organismi
distruttori. I pesci e i rettili vivevano nelle acque superiori. Una volta che
morivano andavano giù e non c’era nessun animale che li distruggesse.
Si conservavano perfettamente. Venivano ricoperti lentissimamente da una fanghiglia,
in mancanza di ossigeno: le migliori condizioni per fossilizzarsi.
Che aspetto avevano queste piattaforme carbonatiche? Sappiamo che erano coperte
di conifere tropicali, simili forse alle attuali araucarie. In questo mare tropicale,
queste isole emergenti avevano un po’ l’aspetto delle attuali Bahamas.
Viveva qui una fauna molto ricca di pesci e di rettili, i predatori, che erano
in cima alla catena alimentare. C’è anche una fauna di conchiglie
fossili bellissime nel calcare di Esino, tra le più belle faune del Triassico
di tutto il mondo. Una delle particolarità più straordinarie è
che in molti casi hanno conservato addirittura i colori, sia pure sotto forma
di macchie più nere. Non è che siano colorate. Però si
vedono striature, zonature, macchie. In fossili così antichi è
una circostanza del tutto eccezionale. Ci sono anche piccoli organismi, alghe
lunghe un centimetro o poco più, che avevano un guscio di calcare ed
erano tra le costruttrici della piattaforma. Sulle Grigne affiorano queste tracce.
Come si formava il fossile? Il lariosauro morto galleggia a pancia all’aria
per i gas della putrefazione. A un certo punto la pancia scoppia e l’animale
va giù, si deposita su questo fondo dove manca l’ossigeno. La fanghiglia
che lo ricopre, per il suo stesso peso e per la presenza di minerali, diventa
roccia ed ecco che i cavatori, 230 milioni di anni dopo, spaccando quello che
veniva chiamato marmo nero di Varenna, molto usato, a volte trovavano dei fossili.
Nello stesso giacimento di Perledo in cui fu scoperto il lariosauro, si sono
trovati anche pesci fossili. Purtroppo la maggior parte di questi fossili non
esiste più: erano conservati al museo di Milano, distrutto da un grappolo
di bombe incendiarie nel 1943.
Oggi le cave sono chiuse. Non si possono più fare ricerche, a meno che
qualcuno non riprenda a farlo con interessi puramente scientifici, ma sarà
molto difficile perché i fossili sono molto dispersi nella massa. A quei
tempi i cavatori lavoravano del tutto a mano, con mazza e scalpello, e c’erano
cinque o sei cave che lavoravano tutto l’anno.
Vediamo alcuni di questi pesci. Il Saurichtys è un bellissimo
pesce predatore, un acceleratore, come il luccio o il barracuda che aspettano
la preda fermi e poi scattano. C’è un pesce fossile che porta il
nome di Perledo in giro per il mondo: il genere è stato infatti denominato
Perleidus e la famiglia Perleididae. Quindi quando, per esempio,
un giapponese parla di questo pesce, parla, magari senza saperlo, di una località
del lago di Como. E poi il Prohalecites porroi: tra i più piccoli
pesci fossili, poverini, facevano le spese di tutti, preda degli altri pesci
più grossi e probabilmente anche del lariosauro.
Ed eccoci al nostro Lariosaurus balsami. Il primo esemplare fu trovato
intorno al 1830 e poi segnalato nel “Politecnico” di Milano nel
1839 da Giuseppe Balsamo Crivelli che, però, non gli aveva dato il nome.
Un altro studioso, Giulio Curioni, in seguito, ha classificato un altro fossile,
che era semplicemente un cucciolo di lariosauro, come se fosse una specie diversa.
Lo ha chiamato Macromirosaurus plinij, un nome complicato che ha dato
anche adito ad equivoci. Nello stesso tempo ha dato il nome a quel primo esemplare
che era stato descritto, ma non denominato, da Balsamo Crivelli nel suo studio.
In onore a Balsamo Crivelli lo ha chiamato Lariosaurus balsami, il
“rettile del Lario di Balsamo”. “Rettile del Lario”:
nel senso di “rettile trovato vicino al lago di Como”. Forse l’equivoco
sul mostro del lago può essere venuto fuori di qui.
L’esemplare più bello di Lariosaurus balsami è
finito in un museo di Monaco di Baviera – allora l’acquisto era
libero. E’ lungo 90 centimetri. L’esemplare più grande sinora
ritrovato arrivava al metro e trenta. Non era, il lariosauro, un gigante: i
giganti sarebbero arrivati dopo, nel Giurassico. Allora, nel Triassico, un metro
e trenta era già tanto.
Curioni, che l’aveva classificato, comprò degli esemplari personalmente
dai cavatori.
Un esemplare molto bello è al Servizio geologico di Roma. Ce n’è
un altro molto bello in cui si vede molto bene in particolare la zampa posteriore,
splendida. Un ragazzino aveva trovato il fossile di un lariosauro alla cava
Scanagatta. Ora è al museo di Lecco.
Perché i lariosauri sono così interessanti dal punto di vista
paleontologico? Perché sono in qualche modo gli antenati dei plesiosauri,
anche se un po’ collaterali. Noi sappiamo che i plesiosauri hanno la zampa
trasformata in pinna. Il lariosauro è interessante perché è
in una fase intermedia e ci permette di capire come è avvenuta questa
evoluzione. Mentre la zampa anteriore del lariosauro ormai era diventata una
paletta vera e propria, una pinna, quella posteriore aveva probabilmente una
membrana tra le dita.
I crani dei rettili sono suddivisi in quattro tipi. Il lariosauro, con una sola
fossa temporale alta, è nel gruppo degli euriapsidi. Nel mio libro ho
disegnato la ricostruzione del cranio del lariosauro, ricostruzione che, per
quanto ne so, non era mai stata tentata prima.
Il corpo era molto snello.
Nel mare di Perledo di allora, il lariosauro doveva essere il più grande,
ma c’erano anche altri rettili, come il Neusticosaurus o i placodonti
che schiacciavano le conchiglie con i loro denti grossolani, e varie specie
di pesci.
Del lariosauro non sono stati trovati solo fossili della nostra specie, Lariosaurus
balsami, ma anche di altre. In Canton Ticino, nei famosi giacimenti del
Monte San Giorgio, si è trovato il Lariosaurus buzzii, sui Pirenei
il Lariosaurus curionii. L’ultima scoperta in Italia, leggermente
più recente del L. balsami (un milione di anni dopo), è
il Lariosaurus valceresii, trovato nel Varesotto. L’ultima sorpresa
arriva dalla Cina, anch’essa sulla sponda del golfo detto Tetide. Come
nuotavano qui, i lariosauri nello stesso mare, a distanza di migliaia di chilometri,
nuotavano anche là.
Può essere sopravvissuto sino ad oggi il Lariosaurus balsami?
Ci sarebbero molte cose da dire in base alle quali, secondo gli zoologi, è
molto difficile. Quanto dura una specie? Al massimo qualche milione di anni.
Ma perché cambiano? Le specie cambiano perché cambia l’ambiente.
Voi sapete che non è, come si credeva una volta, che una specie cambia
perché ha qualcosa dentro che la spinge a cambiare. E’ l’ambiente
che, tra tutte le piccole variazioni che si verificano in una popolazione, premia
quelle che sono più adatte all’ambiente e invece seleziona rigorosamente
quelle che all’ambiente non sono adatte. E allora pensate a come è
cambiato l’ambiente da allora. Da un mare tropicale si è passati
alla penisola italiana, con i laghi. Ci sarebbe un discorso interessantissimo
da fare sul fatto che il lago di Como non è un lago glaciale come si
è detto fino a qualche decennio fa, ma è stato formato da un fiume.
A un certo punto il Mediterraneo si è prosciugato. Si è chiusa
Gibilterra e i fiumi non portavano acqua a sufficienza. E’ successo cinque
o sei milioni di anni fa ed è rimasto così per un lungo periodo.
Poi Gibilterra si è riaperta e il mare si è riempito di nuovo.
Per un lariosauro sopravvivere sarebbe stato decisamente molto difficile.
Quindi, in conclusione, è ben difficile che il mostro del lago di cui
vi parleranno gli altri relatori possa essere un discendente del Lariosaurus
balsami. Se esiste, deve essere qualcosa di diverso.
Qualcuno ha detto che potrebbe venire da un’altra dimensione, da una porta
spazio-temporale . Ve be’, a questo punto io non avrei più niente
da dire…
Vi ricordo un principio che si chiama “rasoio di Ockham”. Il famoso
filosofo diceva che non bisogna introdurre una spiegazione più complessa
prima di avere eliminato tutte le possibili spiegazioni più semplici.
Per gli appassionati di fantascienza sarebbe bella una porta spazio-temporale
[1]. Però, per adesso, le allucinazioni o la suggestione
sono ancora una soluzione più valida. Ne resta un’altra, ovviamente:
resta la soluzione – ultimo spiraglio – dell’esistenza di
un animale sconosciuto, di un tipo di cui ancora non sappiamo. E questo non
è da escludere perché gli scienziati, quelli veri, quelli aperti,
non escludono mai nulla a priori. Se fosse possibile verificare l’esistenza
di un animale nuovo, sconosciuto, sarei il primo a compiacermene e quindi vi
lascio dicendo: auguri a tutti noi di trovarlo.
NOTA:
[1] Il relatore fa riferimento
a Gregor von Laufen [i.e. Giuseppe Allievi], Lariosauro : c’è
un mostro nel lago?, [Lecco] : Antica Stamperia Lariana, 2003, pp.43-46.
L’ipotesi (se così si può chiamarla) del passaggio degli
animali misteriosi attraverso porte spazio-temporali, citata in questo libretto,
è stata sostenuta in particolare da John Keel, autore, tra l’altro,
di The Mothman Prophecies, da cui è stato tratto anche un film
(orrendo). (n.d.r.)
Giancarlo Colombo, naturalista con una particolare passione
per l’entomologia e la paleontologia, è autore del libro Lariosaurus,
Varenna : Associazione culturale L. Scanagatta, 2002.